STORIA DI STORIE DIVERSE - XLVII

Insegnanti di sostegno allo specchio: la disabilità tra difficoltà e gratificazione

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cms_21713/Foto_1.jpg“Storia di storie diverse”, ovvero storie di alunni disabili, persone con caratteristiche speciali, con limitazioni visibili ed innegabili potenzialità.

Il loro percorso scolastico, le difficoltà incontrate e quanto sia ancora difficile oggi parlare di integrazione nella scuola italiana.

Partendo da una discussione sulle questioni di più stretta attualità, negli articoli della rubrica si affronteranno anche le problematiche più generali del sistema scolastico, con una visuale privilegiata, quella di chi lavora al suo interno.

Eccomi, alla fine di un percorso, forse impaurita.

Lascerò tutto per sempre: i bambini con difficoltà, la mia scuola costruita nel 1911, in cui sono diventata ciò che sono. Lascerò il mio paese e andrò altrove, per un altro lavoro e per incontrare altri occhi. Lavorerò con gli immigrati, avrò un ruolo diverso, non più piccoli alunni ma adulti.

Mi chiedo come sarà il mio rapporto con loro e se saranno desiderosi di studiare e di apprendere la lingua italiana. Sono stata in alcuni paesi africani e ho avuto un rapporto splendido con queste persone, dotate di grande umanità e di uno spirito comunitario ormai inesistente nei paesi occidentali.

Spero di riuscire ad affascinarli, di riuscire ad indurre in loro l’amore per la conoscenza e il desiderio di proseguire gli studi oltre la certificazione di apprendimento della lingua. Spero soprattutto si possano ricredere sul modo di essere degli italiani, sulla loro empatia e generosità.

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È un cambiamento per me pieno di fascino e ricchezza.

Un cambiamento desiderato che mi catapulterà fuori da un sistema scuola che è divenuto nauseabondo: questi ultimi giorni sono per me insostenibili e non sopporto più tutto ciò che di inutile e burocratico sono costretta a fare.

La compilazione affannosa di svariati documenti, una dirigenza totalmente insensibile non solo ai principi cardine della pedagogia ma alle regole del rispetto umano e interpersonale. Per ben due volte mi è capitato di parlare con una persona che mi voltava le spalle e andava via. Emozionante, dal punto di vista umano, il fatto che una persona non guardi negli occhi mentre le si parla…!

Mi sembra abbastanza scontato che l’umanità e il riconoscimento dell’altro sia alla base dell’insegnamento, eppure non è più così. Insegnare significa confezionare video per Facebook, partecipare a concorsi, realizzare una caterva di progetti, aumentare la visibilità della scuola in una competizione becera, insignificante e priva di ricadute sulla crescita dei più piccoli. Una visione aziendalistica della scuola in cui il direttore didattico è stato sostituito dal dirigente che, non si occupa più di insegnamento e ha perso quella sensibilità propria di chi deve educare mentre ha acquisito competenze più prettamente amministrative e manageriali.

Nulla può essere di più lontano dalla scuola che un’azienda, un mercato. La scuola ha bisogno dei suoi tempi, non può essere condizionata e posta sotto stress da obiettivi altri.

Le scuole che da questo punto di vista emergono e primeggiano, si fa per dire, sono quelle in cui si lavora solo sulla forma trascurando del tutto una sensibilità e una calma da cui non si può prescindere avendo a che fare con i bambini. Ecco perché io, lo dico con un misto di rabbia e ansia, non mi riconosco più in questa scuola. Ormai anche la scuola è parte di questo mondo degli influencer e dei social e deve giocare il suo ruolo in uno spettacolo terrificante.

Scappo via perché voglio creare qualcosa di mio, qualcosa in cui riconoscermi, qualcosa che onori la pedagogia, di cui occorre avere assoluta riverenza se si insegna.

Un po’ sento di aver perso, un po’ mi rendo conto che da sola non posso farcela e non ho alcuna possibilità di nuotare controcorrente e di salvare il mio lavoro e i miei alunni. Soffro per loro e per la scuola che hanno. Trovo ingiusto, poco interessante e anacronistico il modo di far lezione che questi bambini devono subire. È basato, come diceva il mio professore di pedagogia Vittoriano Caporale, sul verbalismo e sul mnemonismo.

Vedo lì gli alunni, fermi come statue di cera, inerti, annoiati, non coinvolti. È una vera pena per me che raramente ho possibilità di stare da sola in classe e di far loro lezione. Per me è una gioia, li vedo molto interessati ed inclini ad intervenire in una interazione comunicativa. Non c’è comunicazione, ricordiamo, se il flusso è unidirezionale, se parla una sola persona. Non c’è confronto di idee che alimenta la crescita così come il sorgere del dubbio e della intrinseca fallibilità di ogni teoria, così come sosteneva Karl Popper.

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Ho avuto un confronto abbastanza acceso con mia madre, che è stata maestra e ha invogliato anche me ad esserlo. Lei legge gli articoli e dice che attacco duramente la categoria a cui appartengo; ebbene sì, è vero, perché nella scuola primaria quasi tutti gli insegnanti andrebbero mandati via per i danni di cui sono responsabili, per come sono vecchi e ottusi nella mentalità e nel modo di proporre la didattica. Mia madre dice che si sono fatti da soli e che nessuno ha mai investito nella loro formazione, sono così per questo.

Però io non posso accettare queste giustificazioni perché ogni giorno è penoso ciò che vedo e continua a non esserci alcun controllo o valutazione del lavoro degli insegnanti.

Vincenza Amato

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