STORIA DI STORIE DIVERSE - XLXIII
Insegnanti di sostegno allo specchio: la disabilità tra difficoltà e gratificazione

“Storia di storie diverse”, ovvero storie di alunni disabili, persone con caratteristiche speciali, con limitazioni visibili ed innegabili potenzialità.
Il loro percorso scolastico, le difficoltà incontrate e quanto sia ancora difficile oggi parlare di integrazione nella scuola italiana. Partendo da una discussione sulle questioni di più stretta attualità, negli articoli della rubrica si affronteranno anche le problematiche più generali del sistema scolastico, con una visuale privilegiata, quella di chi lavora al suo interno.
Mancano ormai solo alcuni giorni alla fine della scuola, alla conclusione delle ultime riunioni collegiali. Alcuni di noi per una decina di giorni insegneranno nei corsi di potenziamento del Piano Estate, fortemente voluto dal Ministro Bianchi, che si è rivelato però essere un farsa: un ciclo di lezioni di soli dieci giorni a fronte dei tre mesi del periodo estivo e di questo ponte che si doveva creare tra un anno trascorso, non valido didatticamente, e l’anno a venire.
Come ogni anno accade che alcuni insegnanti vadano in pensione, ovviamente a loro va la mia ammirazione ed il mio affetto. Gli insegnanti di una volta sono entrati di ruolo circa quarant’anni fa, hanno avuto una formazione diversa, anche nel percorso scolastico.
Gli insegnanti di una volta, come si dice in gergo scolastico, sanno tenere la classe, sanno imporre una sana disciplina, un rigore ed uno sforzo all’esercizio che non potrà che giovare ai giovani alunni, in un futuro non lontano. La capacità di impegnarsi, in modo però continuativo, riesce a far raggiungere, poco alla volta, grandi traguardi.
Ricordo la professoressa Angela Chionna, insegnava docimologia all’Università di Bari. Lei ci fece sostenere l’esame in un modo innovativo, io non sapevo se aderire alla sua proposta essendo una ragazza, all’epoca, timida e insicura. Ci disse che prima della fine delle lezioni alcuni di noi avrebbero potuto salire in cattedra e tenere una nostra lezione agli studenti, sugli argomenti di studio del corso. Dopo alcune titubanze accettai, anche se rischiavo di fare scena muta; accettai perché ciò che mi fa paura ed è una sfida, mi attrae. Fu un’esperienza bellissima, che mi consentì di acquisire self-confidence, come dicono gli inglesi, ovvero una stima di me e di ciò di cui ero capace. Dopo la lezione provai un senso di potenza: ero riuscita a parlare, anche bene e correttamente, di tutto ciò che durante il corso era diventato mio bagaglio culturale, grazie allo studio.
La professoressa Chionna mi disse, quando espressi la mia stanchezza rispetto alla lunghezza del percorso universitario: “Vincenza, tutti i traguardi che hanno valore non sono facili da raggiungere e richiedono un grande impegno”. Io la guardai e lei mi trasmise l’orgoglio di una persona che poteva farcela; in effetti nella mia laurea ci sono, a livello embrionale, le basi culturali di una formazione che man mano si arricchirà grazie al lavoro e ad altre esperienze.
Le insegnanti di una volta, quelle che, a breve, con commozione e affetto saluterò, preparavano i bambini all’impegno e ai risultati, erano severe e materne, davano un inquadramento che mai come oggi sarebbe necessario a una generazione senza regole e riferimenti.
Le maestre di una volta conoscevano alla perfezione le materie che insegnavano, erano preparate didatticamente, eccellevano nella conduzione della classe e ciò non è scontato. È molto difficile riportare all’ordine una classe composta da tanti alunni, in un’età per cui è assolutamente costrittivo rimanere seduti tante ore al giorno; per non parlare, poi, di quanto accaduto durante la pandemia: gli alunni non potevano nemmeno alzarsi dai banchi e parlare tra loro.
Sono le maestre di una volta ad essere perse per sempre, quelle da cui ciascuno di noi ha imparato ad insegnare, quelle che, talvolta, non abbiamo sopportato per severità e chiusura ma che abbiamo guardato con il rispetto di chi riconosce la competenza. Certo che mi commuoverò, ciò che finisce crea tristezza e trasporto.
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