SULL’INVIDIA

Di Nunzio Lucarelli (scrittore)

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Giotto, L’invidia, Padova, Cappella degli Scrovegni

Credo fermamente (soprattutto perché ne ho avuta esperienza emotiva) che la via lunga del percorso di cura e ricerca psicoanalitica conduca alla felicità intesa come assetto mentale che predispone alla accettazione dei propri limiti e forma l’abilità a godere della vita.

In tale percorso diviene inevitabile di incontrare l’Invidia e di ingaggiare una lotta contro di essa, che se lasciata indisturbata, come un tumore metastatizza e corrode, producendo invecchiamento precoce nei ‘tessuti mentali’ sani .

Accennerò in questo breve scritto a tale terribile sentimento, che senza dubbio è da annoverare tra le variegate manifestazioni dell’ Istinto di Morte perennemente in antagonismo con l’ Istinto di Vita .

Ciò che rende giovane l’essere umano nel suo percorso di vita è l’aver appreso ad apprendere dall’ esperienza, a rendere pensiero ciò che di più rozzo bolle nel calderone del nostro inconscio, (dove appunto l’ Invidia stessa fa da padrona ), ad utilizzare cioè l’ Elisir di Lunga Vita o il Santo Graal che si estrae proprio da quelle esperienze mentali ‘basiche’ che neutralizzano la super acidità dell’Invidia.

Ma proviamo a conoscerlo un po’ da vicino questo produttore di acido ipercorrosivo.

Possiamo intendere l’ Invidia come un modo malevolo di guardare la fortuna degli altri: il termine deriva dal latino ‘invidère’ che si traduce con ‘vedere con occhio malvagio’. Nella mitologia romana essa è raffigurata con una donna dal viso emaciato e livido, dal capo coperto di serpi attorcigliate delle quali una azzanna con avidità e rabbia il motore della vita, il cuore.

Un’altra plastica e poetica raffigurazione dell’ invidia è quella di Dante che nella seconda cornice del suo Purgatorio colloca gli invidiosi seduti spalla a spalla, tormentati da un cilicio e aventi gli occhi cuciti da filo di ferro. Dante incontra tra i purganti Sapia che fra l’ altro dice al poeta desideroso di conoscere : ‘…e fui degli altrui danni più lieta assai che di ventura mia’.

Nella cultura popolare essa trova espressione nella superstizione del famigerato ‘Malocchio’.

Con Sigmund Freud, padre della Psicoanalisi, essa si erge come elemento caratteristico della personalità femminile: la donna è da lui vista come invidiosa del pene che lei non possiede e di cui sente con livore la mancanza, ciò che lascia tracce incancellabili nella sua vita da adulta determinando atteggiamenti distruttivi contro se stessa e l’ essere umano in genere.

Melanie Klein, altra caposcuola della Psicoanalisi, considera l’ Invidia come sentimento originario già radicato nel neonato e che si attiva nei confronti del seno materno fonte di nutrimento e vita ed anche di inevitabile frustrazione.

Altri caposcuola, al contrario di Freud, sottolineano l’ importanza dell’ Invidia della vagina, o ancor di più dell’ Utero, che i maschi provano, e pensano inoltre che l’ Invidia del Pene non sia una prerogativa esclusiva della donna.

Essi sono convinti che anche l’ uomo prova invidia nei confronti dell’altro maschio, il cui Pene può essere fantasticato come più grande e più potente del proprio e che il Pene, (o Fallo, nella equivalenza simbolica, o Santo Graal, per l’ immaginario collettivo inconscio), è considerato un valore assoluto da maschi e femmine e dà origine perciò a lotte furiose tra l’ uomo e la donna per la sua gestione, conquista o ricerca .

In noi occidentali l’invidia opera nel far si che l’altro uomo resti nella tristezza e nella mancanza, nel non consentirgli di avere qualcosa in più di noi invidiosi.

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