TRADURRE E’ TRADIRE? - La lettura de I Fiori del male di Charles Baudelaire a "Cento Incroci" - III^ parte

Le rime maschili e le rime femminili. Il verso alessandrino di Charles Baudelaire: “Isometrismo” o “analogia metrica”, metrica atonale (o informale) o soluzioni intermedie?
Tra le varie caratteristiche stilistiche rinvenibili nell’opera di Baudelaire, accanto al verso alessandrino, vi è quella propria della tradizione provenzale e francese delle cosiddette “rime femminili e rime maschili”.
Sono dette rime femminili quelle rime tra parole “piane” (o parossitone), ovvero che presentano un accento tonico sulla penultima sillaba cui segue una sillaba atona (senza accento: féte; téte; bàttre: quàtre) e rime maschili quelle rime tra parole “tronche” (od ossitone), vale a dire con accento sull’ultima sillaba (aimé; regardé).
Analogamente all’impossibilità di una precisa trasposizione in italiano dell’alessandrino francese (il doppio settenario italiano, pur simile, non lo è, come avremo modo di vedere tra poco): “Il fatto di dover rinunciare nella nostra lingua alla corrispondenza di rime femminili e rime maschili (le rime con parole tronche non soccorrono, e anzi sono da evitare il più possibile) impoverisce il testo italiano. E allora la ricerca di rime non facili o rare o inattese può aiutare a compensare questo impoverimento. Ma ogni traduttore sa che non è la rima in sé che conta ma come essa sopraggiunge, dopo quale movimento di suono e di senso, di forme retoriche e di timbri, in relazione con quali altre rime, in relazione con quali risonanze letterarie.” (Antonio Prete, Nota sulla traduzione, pag. 24, vedasi la BIBLIOGRAFIA che verrà riportata nella V e ultima parte dell’articolo).
È stato osservato come, “in conseguenza di questa molteplicità e di questa ricchezza di significati e di valori, proprio a causa della stessa profondità e della sua stessa pregnanza, Baudelaire è stato, forse quasi al pari di Mallarmé, ‘tradito’ […] dai suoi traduttori” (Matteo Veronesi, L’ordine e il mistero. Cinque paragrafi per una traduzione, Nota alla traduzione, pag. LXXVIII, vedasi la BIBLIOGRAFIA, ibidem).
“E anche “ ‘rifare’ Baudelaire, ‘riscriverlo’ in italiano in modo originale, discostandosi troppo dalla lettera, spezzando certi equilibri, certe armonie, appunto miracolosi e magici, di strofe e di emistichi, può talvolta equivalere a snaturare, se non a profanare, la sacralità del Verbo, la santità inviolabile, quasi sacerdotale, rituale, liturgica, della Parola” (Ibidem, op. cit., pag. LXXXI).
A tal riguardo molto equilibrata appare l’indicazione fornita da Giuseppe Spinillo. Nelle varie traduzioni dall’italiano al francese de I fiori del male (certamente quelle “affidabili”) troviamo “Approcci diversi, tutti legittimi, con cui [… misurarsi] senza la presunzione di trovare un’oggettiva verità ma delle singole possibilità [… nelle quali poi] ciascuno costruirà *il proprio percorso che sarà fatto di scelte”.
È stata richiamata, inoltre, sempre da Spinillo l’attenzione sull’importanza di una lettura preliminare delle Introduzioni (o Prefazioni), generalmente presenti e premesse all’opera di traduzione vera e propria, “utili per allargare le nostre menti comprendendo le motivazioni che stanno dietro ogni stile di traduzione” (Spinillo docet), in quanto “chiavi di volta”, linee, che pongono in luce i criteri e le accortezze seguite dai traduttori rispetto ai componimenti baudelairiani.
In modo da poter meglio seguire e apprezzare il cammino intrapreso dai vari partecipanti, appare utile esporre di seguito una panoramica dei criteri e percorsi seguiti nelle traduzioni utilizzate della raccolta poetica di Baudelaire, riportandone stralci più o meno ampi, rinvenibili nelle Introduzioni, Note, Prefazioni (et similia) presenti nelle versioni italiane: analisie considerazioni delle quali si sono avvalsi i partecipanti durante i vari incontri, un ottimo ausilio, preparatorio per la lettura e discussione sulle svariate liriche di Baudelaire.
Inoltre, grazie a questo excursus appariranno anche, in varia misura, accanto alle problematiche attinenti squisitamente al profilo della traduzione dell’opera, le considerazioni dei vari autori, che ci avvicineranno e faranno apprezzare l’infinita grandezza dell’universo poetico dell’immortale Charles Baudelaire,
Giovanni Raboni e Antonio Prete: due diverse impostazioni.
Secondo il poeta e traduttore Giovanni Raboni,
“due sono le letture che con maggiore convinzione condivido e che tutt’e due sono, curiosamente, non di poeti né di poeti-critici, ma proprio di critici (nel secondo caso, anzi, di un critico-filologo): Albert Thibaudet e Erich Auerbach.
Del primo, considero assolutamente fondamentale l’idea che la singolarità e la grandezza della poesia di Baudelaire consistano, in misura decisiva, nell’alleanza che in essa si propone e si attua tra poesia e prosa o, per dirla con le sue parole, «tra prosa nuda e poesia pura» [Albert Thibaudet, Storia della letteratura francese dal 1789 ai nostri giorni, trad. it. di J. Graziani, Milano, Il Saggiatore, 1967]: alleanza che a lungo (e forse ancora) ha potuto essere scambiata per «banalità o scorrettezza» […], nella quale Thibaudet riconosce invece un’arte della dissonanza «più sottile e più delicata che non l’arte della consonanza». Intuizione critica stupenda, attraverso la quale sarei portato a filtrare non solo qualsiasi discorso sulla «modernità» di Baudelaire, ma anche ogni immagine o progetto, ancora oggi di modernità in poesia.
Quanto ad Auerbach, è addirittura superfluo ricordare la sua fondamentale asserzione che Baudelaire è stato il primo a «dare forma sublime» a soggetti appartenenti, secondo l’estetica classica, alla categoria del «ridicolo», del «basso», del «grottesco». [Erich Auerbach, Da Montaigne a Proust, trad. di G. Alberti, A. M. Carpi e V. Ruberl, Bari, De Donato, 1970]” (Giovanni Raboni, Prefazione, pag. V-VI, vedasi la BIBLIOGRAFIA, ibidem).
Come precisa Raboni, questi due sono i parametri mediante i quali ha iniziato il suo “lavoro di ricostruzione in lingua italiana del testo poetico baudelairiano [ … Connaturati] all’intento mi parvero sin dall’inizio sia il rifiuto del cosiddetto isometrismo (cioè della pretesa di rendere con doppi settenari regolarmente rimati gli alessandrini e le rime dell’originale) sia, all’estremo opposto, quello di una metrica atonale o informale[... ;] la forma [allora …] poteva essere trovata solo in un incrocio continuamente reinventato, e verificato volta a volta «sul campo», tra verso libero e verso tradizionale quest’ultimo in misure varie e a volte abnormi e tuttavia sempre riconducibili, direttamente o indirettamente, a una sorta di integrazione-conflitto tra doppio settenario (che, comunque, non è l’alessandrino) ed endecasillabo (che è, storicamente, il «nostro» alessandrino, nel senso che sta alla tradizione poetica italiana come l’alessandrino sta alla tradizione poetica francese).
Quanto alle rime, si trattava di trasformarle da adempimento sonoro in metafora o fantasma dell’adempimento, cosa in qualche misura possibile a patto di saper giocare […] su assonanze e ricorrenze vocaliche o addirittura su calcolate e ostentate elusioni.
[… Quanto alla] questione del lessico e della sintassi […] per rappresentare o evocare in termini attuali, voglio dire attualmente percettibili, l’interazione tra «comico» e «sublime», bisognava, a mio modo di sentire, accentuare entrambi i registri in causa, rendendo per così dire più eccelso l’eccelso del linguaggio baudelairiano (a costo di retrodatarlo, di farlo apparire, a tratti, più aulico, più «antico») e, per contro, più basso il basso, più grottesco il grottesco, facendo scivolare ancora più in qua - verso un’ipotetica «funzione Celine», tanto per intenderci - la sua componente realistico-prosastica.” (Giovanni Raboni, ibidem, pagg. VI-VII).
Ritornando al dualismo/contrapposizione indicato da Raboni, è stato parimenti osservato che “l’alternativa sarà, per usare termini e concetti propri della traduttologia di James S. Holmes, fra una ‘metapoesia analogica’, che adatti ed assimili l’originale nelle forme ed agli usi della tradizione letteraria legata alla lingua in cui si traduce, anche a costo di alterarne la lettera, di manipolarne la valenza semantica, di renderlo in parole povere, troppo ‘liberamente’, e una ‘metapoesia mimetica’, che riproduca o rispecchi, in modo il più possibile aderente, rispettoso […] la lettera, la struttura, per così dire la forma e la veste, del testo originale” (Matteo Veronesi, L’ordine e il mistero. Cinque paragrafi per una traduzione,pagg. LXXIX- LXXX, vedasi la BIBLIOGRAFIA, ibidem).
Diversa, rispetto a quella di Raboni, la soluzione del critico letterario, traduttore e poeta Antonio Prete, descritta nella sua Nota sulla traduzione (illuminante anche la sua Introduzione, entrambe premesse alla sua traduzione a I fiori del male, per la quale vedasi la BIBLIOGRAFIA, ibidem).
Anche l’autore de Il pensiero poetante (dedicato a Leopardi), dà conto dell’alternativa già accennata.
“Tutte le traduzioni delle Fleurs du mal si trovano ad affrontare subito un dilemma. Rinunciare all’equivalenza della forma metrica, accettando così di perdere un elemento profondo dell’esperienza poetica baudelairiana, cioè l’unità tra una forma classica e una lingua dell’eccesso, del grido, della lacerazione, tra una teatralità raciniana e una dizione che si scompone e dissipa e piega verso forme narrative, o evocative, o confidenziali. Oppure, all’opposto, stare prossimi il più possibile alla misura del verso, alla forma chiusa, al sistema delle strofe, alle corrispondenze prosodiche, al movimento delle rime, e però, proprio per questo, allontanare il poeta dai modi della poesia a noi contemporanea, scavare un solco fra il tempo del poeta e il tempo di chi traduce. Quanto alla mia traduzione, essa ha preferito correre il secondo rischio. Quello, cioè, di starsene all’ombra delle forme metriche baudelairiane, anzi, persino, quando è stato possibile, all’ombra del loro ritmo. E tuttavia, la vicinanza alla forma metrica di un’altra lingua è sempre comunque un’approssimazione: per via della differenza di fonesi, di sistema delle rime, di dizione. Un’approssimazione, inoltre, che resta al di qua della ragione poetica propria dell’originale. Ragione che in Baudelaire sa congiungere il ritmo del verso alessandrino con l’altro ritmo, quello che vede pulsare nella bellezza “l’eternel” e “le transitoire”.
[…] La questione più importante mi è parsa quella di dover cercare, di testo in testo, un’analogia metrica. Cercare, cioè, la forma metrica italiana che garantisse alto stesso tempo una corrispondenza con il testo originale e una corrispondenza o plausibilità all’interno della nostra lingua poetica, della sua tradizione. In questo senso m’è accaduto di rendere assai spesso l’alessandrino col doppio settenario, cercando tuttavia di mitigare l’effetto di ridondanza teatrale che il nostro martelliano, con le sue cadenze rigide, può trasmettere. In questo senso attenuare le cesure, ponendole talvolta all’interno della stessa unità sintagmatica, della stessa sequenza verbale, facendole funzionare come fossero degli enjambements interni al verso (insomma analoghe, sul piano del ritmo, alla rima al mezzo), permette di ridurre l’effetto di eloquenza e di teatralità, che nella nostra lingua risulterebbe appartenere sempre a un registro alto o gridato o esteriormente sublime. Insomma s’è trattato di tener conto, traducendo l’alessandrino di Baudelaire, delle variazioni che lo stesso alessandrino ha subito venendo verso di noi, a partire da Mallarmé fino a Valery e oltre, variazioni che hanno attenuato appunto l’effetto da teatro raciniano. Traducendo in una lingua come la nostra - nella quale non c’è un’esperienza simile a quella della Comédie che abbia influenzato la poesia - m’è parso giusto tener conto dell’evoluzione del verso alessandrino francese. In rapporto all’alessandrino, l’altra scelta è stata quella di trasmutarlo talvolta nell’endecasillabo italiano: l’alessandrino è per la poesia francese quello che l’esametro era per la poesia latina (lo ricorda Mallarmé in Crise de vers) e quello che l’endecasillabo è stato ed è per la poesia italiana. Analoga è dunque la loro centralità nelle rispettive tradizioni.
[… Così ho operato] ad esempio [… per il] sonetto, e in più di un sonetto che muova esplicitamente dal solco della tradizione francese; oppure quando il testo originale, se reso col doppio settenario, […avrebbe mostrato] nella nostra lingua un di più di espansione narrativa o di solennità. In presenza, poi, di altre misure composite (distici con un verso lungo e uno breve) ho fatto ricorso per il verso lungo al nostro endecasillabo e per il verso breve in genere al nostro settenario (la memoria petrarchesca e leopardiana qui soccorre).” (Idem, pagg. 22-24).
Nel caso della necessaria “rinuncia” delle “rime femminili e maschili”, propria del testo francese (vi si era fatto cenno all’inizio), “la ricerca di rime non facili o rare o inattese può aiutare a compensare questo impoverimento. Ma ogni traduttore [e poeta] sa che non è la rima in sé che conta ma come essa sopraggiunge, dopo quale movimento di suono e di senso, di forme retoriche e di timbri, in relazione con quali altre rime, in relazione con quali risonanze letterarie.
[…] Se è vero che tradurre è anche interpretare, qui dovrebbe cominciare un altro discorso.
E dovrebbe riguardare non solo i modi musicali, i timbri, le tonalità, le rifrazioni sonore della lettera, le allitterazioni e ripetizioni, le variazioni ritmiche, le esclamazioni, le interrogazioni, che appartengono alla poesia di Baudelaire come corpo suo proprio e dunque irrinunciabile, ma anche la tavolozza dei colori, lo spettro delle “correspondances”, le personificazioni, le gradazioni affettive e i registri dell’orrore, il dizionario dell’abiezione e le voci che compongono il sublime da contaminare o lacerare o soltanto citare come lampo improvviso, i modi che definiscono gli effetti della dissonanza e così via.
Per tutto questo, di volta in volta, di testo in testo, si tratta di trovare una corrispondenza nella nostra lingua. Esercizio arduo, se non impossibile.” (Idem, pagg. 24-25).
“L’altra scelta” di Giuseppe Montesano.
Due i volumi ov’è presente la medesima traduzione de I fiori del male di Baudelaire curata da Giuseppe Montesano: il primo pubblicato dalla Bompiani (2022) e il secondo edito dalla casa editrice Giunti (2021) dal titolo Baudelaire è vivo. I Fiori del male tradotti e raccontati con lo Spleen di Parigi, I Relitti e i Nuovi Fiori del male.
Di questa seconda pubblicazione, tra i vari capitoli, tutti notevolissimi, si possono cogliere importanti riferimenti, per il profilo che qui interessa, nel capitolo dal titolo Prima di uscire dalla foresta (pagg. 1231 – 1235)
“Questa traduzione si basa sull’idea che in Baudelaire la forma delle immagini sia più resistente di tutti gli altri elementi, compresa la musica fonetica di versi e rime: intendendo per ‘forma delle immagini’ anche ciò che agisce, sente e pensa attraverso l’Io romanzesco o, se si vuole, narrativo e teatrale, e comunque non semplicemente lirico, dei Fiori del male. Una forma che agisce attraverso i personaggi che entrano in relazione con quell’Io, personaggio tra gli altri personaggi i quali, a loro volta, dicono o sottintendono Io o Noi o Loro, e affollano la drammatica commedia baudelairiana in un dialogo ininterrotto.”.
Di conseguenza, secondo Montesano:
“La via che questa traduzione percorre è quella in cui si pensa che, essendo le immagini e i personaggi e la struttura delle frasi traducibili, I Fiori del male possono continuare a vivere attraverso una traduzione il più possibile vicina alla lettera: una via che, tra l’altro, è una traccia per chi vorrà leggere l’originale.”
“Un’altra scelta fatta qui è quella di non variare la punteggiatura, rispettandola quasi alla lettera, senza cercare di poetizzarla sveltendola: la punteggiatura di Baudelaire [fittamente ossessiva] è una scelta molto chiara e da lui più volte sottolineata nella sua importanza, è una punteggiatura che si richiama anche alla voce ma nel senso di una retorica da discorso che deve essere capito anche se pronunciato a voce, è una punteggiatura analitica che è strettamente legata alla costruzione della frase e che dimostra come Baudelaire cercasse a tutti i costi un’evidenza del discorso tale da non dare seguito ad alcun fraintendimento di lettera, un’evidenza del discorso che rimanda alla funzione sia teatrale che romanzesca dei vari personaggi — i vecchi, i mendicanti, i paria, gli ubriachi, tutti i vari e diversi Io narratori e attori che agiscono o subiscono — messi in scena in tutte le sue poesie, comprese quelle che vengono ritenute più personali o autobiografiche […]
La punteggiatura in Baudelaire è rivolta a evitare il fraintendimento sintattico, ma, nello stesso tempo, secondo una dialettica tipica in lui, essa si ramifica fino a diventare quasi come una gabbia, stretta ma anche, e contraddittoriamente, sovrabbondante […] una scelta tesa a rendere complesso e polifonico il dettato cercando però di non renderlo confuso.”.
“Al contrario di ciò che accade nelle versioni in prosa, qui si è cercato di riportare lo schema delle strofe e di dare una riga per un verso: provando a rispettare, ogni volta che fosse possibile senza distorcere il cursus dell’italiano, l’ordine delle parole nelle frasi […,] la lingua italiana ha le sue ragioni che poco sopportano le ragioni della versione interlineare, che era il sogno di Walter Benjamin e la fantasticheria di chi scrive qui. E quindi in vari luoghi la letteralità è venuta meno quando si è trattato della comprensione del testo, privilegiata sempre.”
“In certi casi si è deciso di esplicitare il significato di una parola singola con più parole, con lo scopo unico di avvicinarsi il più possibile ai significati di una parola francese non resi da una sola parola italiana. Una traduzione è sempre una battaglia con morti e feriti, ma può essere anche una grande chance per il fatto che potrebbe diventare, se non indulge al poeticismo che è sempre d’accatto, una lente che ingrandisce i dettagli e li fa vedere meglio. Una lente che mostra il traduttore messo a nudo nel suo essere solo un traduttore, ma che lascia vedere ciò che il poeticismo vela falsificandolo: i dislivelli o piccoli choc, evidenti e nascosti, del testo di Baudelaire. La lingua dei Fiori del male ha una sua uniformità da lingua media letteraria, come ha notato tra gli altri Luca Pietromarchi […] “lessicalmente […] quasi sempre all’interno di un registro temperato, medio”: [… ove] si avvertono i dislivelli, anche quando sono minimi.”
“Spesso […] chi legge in francese, che sia di lingua madre o acquisita, tende a non leggere o a trascurare gli ‘inciampi’, anche di punteggiatura, che nel testo fanno corrugare la lingua media. Così perdendo qualcosa di centrale, che forse il testo rivela più facilmente sotto la lente di ingrandimento e di deformazione di una traduzione quanto più letterale possibile, che costeggia la prosa: certo è che proprio quei corrugamenti, o dislivelli, o choc, insieme al sospetto di prosasticità troppo realistica, sono ciò che notarono con sorpresa o irritazione i primi lettori […] mancanze, che [… anche] oggi, sono la vera forza che emana dai Fiori del male: in esse si manifesta un sovrappiù che nasce dal venir meno della forma di fronte al contenuto, un sovrappiù che costringe il gran libro a diventare dialogico e romanzesco. Dovunque Baudelaire abbia cercato di andare oltre il ‘poetico’, non solo della sua epoca ma della tradizione, si sente che stiamo entrando nel suo territorio più personale: il luogo mahleriano della sua poesia. Allora in lui la forma si riempie e si tende fin quasi a rompersi […]: un tessuto che se pure teso al massimo, al contrario di ciò che scriveva Flaubert, non esplode mai ma è sempre sul punto di esplodere [… In tal modo] la prosasticità rimproverata a Baudelaire si scontrava in maniera originale con la poesia, creando il nouveau […] Ma il territorio nel quale si era addentrato Baudelaire era fatto di contraddizioni dialettiche perpetue, ed è l’esatto equivalente del pavé [“ciottolo”] sconnesso di versi famosi in cui inciampa il suo alter ego poeta ricordando e trovando qualcosa che a lungo ha sognato, qualcosa che a ciò che conta per noi nei Fiori del male: un sogno che è un risveglio.”.
Le altre traduzioni de I fiori del male della “triade” utilizzata nel Laboratorio poetico.
In uno dei capitoli precedenti, secondo quello che abbiamo affettuosamente battezzato “Il metodo Giuspin”, si è fatto cenno alle tre versioni italiane, prescelte in via preliminare da Spinillo per il lavoro del Laboratorio poetico, relative a tre bellissime poesie di Charles Baudelaire, L’albatro, Elevazione e L’uomo e il mare, e ai loro autori.
Di Giovanni Raboni si è parlato in un capitolo precedente”, in una certa “contrapposizione” alla “scelta metrica” di Antonio Prete, discorrendo poi successivamente della “scelta” di Giuseppe Montesano.
Ma quali sono i criteri che hanno ispirato le traduzioni di Gesualdo Bufalino e Antonio Muschitiello?
Gesualdo Bufalino, racconta preliminarmente nella sua nota introduttiva l’esperienza da sedicenne (era il 1936) di una sua ingenua “retroversione” in poesia dall’unica versione a lui al tempo accessibile delle Fleurs du Mal tradotta in prosa, “isolando quartine e terzine. [… Cercavo di] trovare all’interno di ciascuna, con certosina polizia, mots-sésame delle rime; e, partendo da queste, a risarcire in qualche modo i misteriosi alessandrini perduti.
[…] Vent’anni più tardi altra storia [… e] m’applicai a volgere, stavolta dalla lingua sua nella mia, il mio solito poeta.
Scelsi ereticamente il criterio isometrico, […] convinto che lo consigliassero le categoriche scansioni dell’originale, [… con la] scoperta delle possibili rime italiane […] Così nacque questa mia versione: un po’ come placebo, un po’ per una fiducia nella prosodia come architettura simbolica e salvifica dell’universo.
[… Questo sorretto], riguardo al tradurre i classici, [da] una mia ingenua e inveterata persuasione: che taluno d’essi, e Baudelaire fra questi, non sopporti d’essere sbucciato della propria solenne armatura senza perdere più di quanto altrimenti guadagnerebbe.
E che una tale disobbedienza, apparentemente esteriore, non solo stravolga subito l’aura storica dell’opera, ma costituisca la prima istigazione ad aggiungerle i nostri vizi. Delitto che so di non avere evitato, ma in cui sarei forse incorso più gravemente, se mi fossi concessa più libertà.
Null’altro da dichiarare. Sc non che la traduzione è condotta sul testo curato da Antoine Adam, per Garnier.” (Leonardo Bufalino Le ragioni del traduttore, pag. XXXVI- XXXVII, vedasi la BIBLIOGRAFIA, ibidem).
Nicola Muschitiello, nella sua introduzione I versi ritrovati. Note sulla traduzione (pagg. 17-18, vedasi la BIBLIOGRAFIA, ibidem) fa presente che la sua nuova traduzione
“è informata al proposito principale della chiarezza, per quanto mi è stato possibile. Chiarezza tentata in certi titoli perfino, laddove potessero risultare oscuri; col ricorso anche alla traduzione, data fra parentesi quadre, dei titoli latini (salvo uno, chiaro di per sé) e di un titolo composto di un termine greco (riprodotto in modo schietto, senza l’acca della derivazione latina e l’accentazione francese). La larghezza di perifrasi e di chiare espressioni analoghe si accompagna a certa esattezza lessicale. Baudelaire scriveva per i colti del suo tempo e perché il libro facesse «il suo corso nella memoria del pubblico letterato». Poteva permettersi perfino di pubblicare una poesia in latino, senza traduzione. Molte, troppe espressioni e molte, troppe allusioni rischiano oggi d’essere mute.
Ho cercato di esplicitare al lettore quello che era implicito ma comprensibile al lettore contemporaneo di Baudelaire. Con i mezzi a mia disposizione, cercando sempre di ridare il testo originale nella sua autenticità poetica: cercando cioè di riprodurre un’immediatezza di effetto e di senso, ancor più necessaria in un libro cosi veemente e formidabile nelle sue infinite finezze. In ogni caso, usando d’una versificazione libera, e d’un ritmo adeguato, con versi che suonassero nuovi e insieme familiari.
Se tradurre poesia è elettivamente fare poesia, la ragione poetica del testo originale dovrebbe rigenerarsi nella traduzione. Ora, la traduzione che si offre qui è il tentativo sincero di fare corrispondere la verità del testo originale a quella della lingua d’adozione. Questo ha imposto, fra l’altro, l’assunzione di certe accezioni proprie di Baudelaire o del suo ambiente in un particolare testo (la suggestione erotica dell’aggettivo femminile «folle», sostantivato o no, per esempio) o anche la scelta di esprimere nettamente o suggerire ciò che sarebbe rimasto inespresso o non sufficientemente espresso, nei limiti della convenienza logica e poetica, con termini appropriati.”.
(segue)
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Le parti precedenti ai links:
https://www.internationalwebpost.org/contents/TRADURRE_E-rsquo;_TRADIRE_31619.html
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