TURCHIA: L’INESORABILE SPROFONDO NELLA DITTATURA

Dall’idea di entrare nell’UE alla deriva del fondamentalismo islamico, la Turchia di Erdogan è oggi uno Stato distopico

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Nel 2004, era considerato probabile l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea.

Al tempo, Recep Tayyip Erdoğan era Primo Ministro soltanto da un anno, ed era apertamente schierato a favore dell’entrata in UE.

La cosa non si realizzò, e da allora, in maniera lenta ma inesorabile, la Turchia si è trasformata in un incubo a cielo aperto.

Tramite modifiche certosine alla Costituzione e all’assetto istituzionale del Paese, il leader turco, che è stato Primo Ministro per 11 anni ed è ora Presidente della Repubblica da sei, ha fatto in modo di prolungare il proprio potere quasi a tempo indeterminato. Il suo mandato, ora, durerà certamente almeno fino al 2029.

La cosa più inquietante di questo processo è che quello che si configurava come uno Stato laico è sprofondato nel fondamentalismo religioso. Oggi, chi compra alcolici (costosissimi) in Turchia esce dal supermercato con una busta nera, simbolo della vergogna di andare in contrasto con i princìpi musulmani.

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E pensare che esattamente dieci anni fa, nello stadio İnönü, 55 mila persone assistevano al concerto del Grup Yorum per il 25° anniversario della nascita della band di musica popolare e di sinistra. Uno spettacolo che consegnò alla storia una delle più coinvolgenti interpretazioni di Bella ciao. Ma nel disegno di Paese che Erdoğan aveva in mente, non c’era spazio per gli artisti dissidenti, i giornalisti non allineati e i loro avvocati. Per difendere la libertà di espressione, molti di loro diedero inizio al death fast, il digiuno fino alla fine: nella primavera di quest’anno, ridotti a pelle e ossa, sono morti tre musicisti della band. Poi, una serie di eventi, sono diventati il pretesto di Erdoğan per inasprire la repressione dei diritti civili del popolo turco.

Già a partire dal 2011, il processo di riforme reazionarie di Erdoğan entrò nel vivo: fu reintrodotto il reato di blasfemia e abrogato il divieto per le donne di indossare il velo islamico nelle università e negli uffici pubblici. Le pressioni sulla stampa e le ingerenze nei palinsesti televisivi si facevano sempre più frequenti, la tassazione sugli alcolici raggiungeva cifre altissim, e la libertà di manifestazione era messa in discussione. Per non parlare poi delle cosiddette leggi sul “pudore pubblico”, che, tradotto, significa: “fuori da casa tua devi essere un automa”.

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Un tentativo fallito di colpo di Stato contro il Presidente nel 2016 ha fatto il resto. Ci fu l’arresto di 2.839 soldati e fecero il giro del mondo le immagini delle torture che subirono. Vennero rimossi dall’incarico e arrestati ben 2.745 magistrati e cinque membri del Consiglio superiore della magistratura furono sostituiti da giudici graditi al presidente. Nei giorni successivi al golpe, il governo impose il divieto di espatrio a tutti i dipendenti pubblici, i quali si videro sospendere persino le ferie. Il mondo universitario e la stampa furono irrimediabilmente compromessi nella loro indipendenza politica. Oltre 15.000 insegnanti, in seguito al colpo di Stato, furono licenziati. Dal ministero dell’Istruzione furono costretti a dimettersi 1.577 rettori e 1.176 dirigenti di atenei pubblici. A 21 mila docenti di scuole private fu revocata la licenza d’insegnamento. Il 20 luglio 2016 Erdoğan annunciò lo Stato di emergenza di tre mesi, prorogato poi fino a fine anno. La deriva autoritaria della Turchia accelerò bruscamente da quel giorno. Da allora, sono stati chiusi 70 quotidiani, 20 riviste, 34 stazioni radio e 33 canali televisivi.

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Un barlume di speranza in una situazione drammatica si è però acceso nell’ultima tornata di elezioni locali, quando il partito di Erdoğan ha perso l’amministrazione sia di Istanbul che di Ankara.

La repressione del Presidente in carica inizia a essere talmente evidente da far decidere di attivarsi anche ai cittadini più impauriti.

Perché la Turchia poteva essere un grande Paese democratico e laico, e si sta trasformando in un piccolo inferno fondamentalista.

Giulio Negri

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