ZUPPA FORTE (soffritto)

Dalle taverne e osterie del 700 alla nostra tavola

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Le antiche taverne

cms_20627/2.jpgLe taverne del Quattrocento accolsero, come seguì pure ne’ secoli che vennero dopo, non pur beoni e mangiatori ma poltronieri e rompicollo della peggior sorte. E il più bello è che, a volte, dagli stessi principi d’Aragona, assai poco scrupolosi, quella gente pericolosissima e sopraffattrice otteneva la più larga protezione. Ricordo a esempio la licenza concessa nel 1451 da Alfonso I ad Auxia Milani di accogliere e non molestare nella costui taverna “tutti gli sgherri e fuorusciti di quel tempo i quali erano compresi sotto il nome di ruffiani”.

Costoro furono appresso chiamati compagnoni o smargiassi. Il guapo, o guappo, da costoro è nato e dal guappo è nato il camorrista, degenerato, il così detto guaglione di malavita o sciammeriella.

Nell’elenco delle taverne fatto pubblicare dal marchese di Crispano1 trovo indicata quella detta Smeragliato Vecchio ma non trovo notata, nel quartiere della Cagliantese, ove dovrebbe essere, la Taverna Penta che dette nome alla strada per cui si scende a Toledo. Penta vuol dire dipinta ed è derivazione di parola spagnuola abbreviata: esisteva dunque quella taverna fin dal tempo del vicereame e forse fu in piedi per ancora molti anni della monarchia, da Carlo III in giù, quando nel 1754 Gaetano Lieto, duca di Polignano, fece costruire a Toledo, all’angolo di Via Taverna Penta, il bel palazzo che si vede ancora oggi. E vide il Settecento, tra quelle che gli lasciava il secolo decimo settimo e le altre novelle che sorgevano osterie numerose, una celebratissima, quella di Marechiaro che ispirò a Francesco Cerlone l’operetta omonima posta in musica dall’Insanguine. Era, al tempo del Cerlone, tavernaro dell’osteria tal Carlandrea, pel quale il Del Tufo certo avrebbe scritto cinquanta ottave.

Quello era un oste accorto! S’era tirato in casa una certa Chiarella, bella ragazza contadinotta, e vistola così presto crescere e farsi bella, pensava di sostituirla alla moglie, ch’era davvero una vecchia arpia. “muglierema è n’arpia/lagente fa fuì/ma co squasille2 e grazia /tu l’hai da trattenè/fai ste cose a pilo/e poi lo contropilo/lassalo fare a me!”

Caro quel Carlandrea! Figurarsi che contropelo faceva agli avventori, specie quando fossero gente che poteva spendere!

Ma ditemi, non preferite Cerlone al Del Tufo? Ecco dei versi gustosi e una lieta e maliziosa pittura del tempo. Ed ecco quel che Carlandrea va offrendo alla signora Lesbina e all’Abate che l’accompagna:

“aggio na ficocella e na fellata3/na bona menestella mmaretata/no macabro4 famoso e na brasciola/na fritta de palaje5, aggio n’arrusto/de pollastre mpanute6 e pollanchelle/che me l’aggio cresciute mollechelle/aggio casocavallo, aggio li frutte/aggio quanto potete addesiare/” […].

cms_20627/3.jpgAlla nota delle taverne del settecento occorre aggiungere – e proprio per la storia - quella davanti alla quale si dice che abbia, in compagnia di Maria Carolina, Ferdinando IV di Borbone fatto mostra di vender pesce e maccheroni a’ lazzari di Posillipo. Alessandro Dumas non dimentica di ricordar questo fatto nel suo libro sui Borboni di Napoli, e certo egli poteva averlo saputo da qualche narrazione che al tempo dell’autore de Tre Moschettieri era più fresca e particolareggiata. Del resto parecchi libri di viaggiatori or francesi ora inglesi, ora tedeschi hanno pagine annetodiche sulla vita partenopea del Settecento e sulle abitudini anche più intime del re Nasone, il ‘Dio de Lazzaroni’ […].

Alla ‘taverna delle Pagliarelle’ al Sciummetiello, ove si dice sia stato arrestato il Cimarosa dalla gente del cardinal Ruffo, son soliti trattenersi carrettieri di passaggio sul Ponte della Maddalena e cacciatori che amano il capretto arrosto;

alla taverna delle Carcioffole si andava per mangiare il fritto delle anguille sebezie e certo formaggio vecchio e pizzicante, annaffiato da fiumi di maraniello e d’asprino.

Chiudo con ricordare che una “Breve relazione della città e regno di Napoli”, pubblicata da Giovanni Orlandi nel 1642, già offre agli statisti alcune cifre rispettabili.

Nelle taverne di Napoli si vendevano di quei tempi centomila botti di vino all’anno per servizio pubblico e più di altrettanto vino era consumato nelle case. Napoli mangiava allora più di 120 mila animali, spendeva 300 miladucati in frutta, 35mila ducati al mese per erbe e ortaggi e serviva di olio per 220 mila staia all’anno. (Fonte: “Luci e ombre napoletane” di Salvatore Di Giacomo).

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La cucina al tempo dei Borboni Interno 08-11-2017.indd 65 13

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Lavate accuratamente le frattaglie di maiale (cuore, milza, rognone, fegato, polmone, etc) e date ad esse una breve sbollentata in acqua e sale. Tagliatele in piccole parti e mettetele in un tegame con olio, aglio e foglie di alloro.

Fate cucinare a fuoco lento per circa 15 minuti, sfumando ogni tanto col vino rosso.

Aggiungete poi la passata di pomodoro, il rosmarino ed il peperoncino e fate cucinare ancora per un’ora e oltre, girando ogni tanto per non fare attaccare la carne. Appena cotto impiattate i pezzi di carne ed il sugo.

Si preferiva non fare addensare troppo il sugo, aggiungendo se necessario un po’ di acqua durante la cottura, in modo da poterne utilizzare una parte come condimento di pasta corta.

Veniva preparato nelle macellerie utilizzando le interiora e gli scarti della lavorazione del maiale (il cosiddetto quinto quarto); appena pronto era esposto all’interno del negozio e poi venduto al pubblico.

Si consumava preferibilmente versandolo su fette di pane raffermo, oppure inserendolo in una mezza pagnotta svuotata della mollica. Era accompagnato da abbondante vino rosso robusto, che spegneva la forza del peperoncino.

Il soffritto era una pietanza molto diffusa nella cucina di tutta l’italia meridionale, pur presentando da zona a zona differenze sostanziali nella preparazione e nella scelta dei tagli di carne utilizzati. Quando i pomodori non erano ancora stati introdotti, si preparava in bianco ed era chiamato saporiglio, dando l’idea con tale nome di un piatto particolarmente saporito.

Durante il periodo invernale era il piatto più richiesto nelle taverne, locali al tempo molto frequentati, soprattutto da lazzaroni e sfaccendati, ma anche da artisti e musicisti che cercavano l’ispirazione con il vino, il cibo e la coperta.

Gli osti facevano a gara a chi preparava il soffritto più saporito, magari apportando dei piccoli aggiustamenti, come l’uso di un peperoncino particolarmente piccante o l’aggiunta di qualche spezia oppure l’abbinamento con un Gragnano particolarmente robusto. Tali novità facevano subito il giro della città e spesso era proprio un soffritto fatto bene a decretare la fortuna di una taverna.

Bruno Di Ciaccio

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