Accanto a un contagio reale ve n’è un altro digitale che si avvale delle velocissime autostrade informatiche. Costretti a rimanere chiusi tra quattro mura, sperimentando un distanziamento sociale che improvvisamente risulta insopportabile, lasciamo dilagare nell’unico spazio, e che spazio, libero concessoci, il web, messaggi in totale libertà senza nessuna cura delle conseguenze e degli effetti che potrebbero avere in un momento catastrofico. Un’anarchia mai vista e conosciuta prima, una valanga di informazioni e notizie spesso di dubbia autenticità trainate non solo dalle piattaforme social, ma anche dall’istantaneità di sistemi di messaggistica ora più che mai ingolfati di parole, citazioni, referti medici, video inquietanti, umorismo macabro, maestre 2.0, mamme pasticcere e altre amenità. Il risultato di una pandemia comunicazionale mai vista e conosciuta finora, forzata perché istituzionalizzata, è il generare individui ancor più apprensivi e pronti a cadere nelle avvolgenti braccia della paura. Rimanere razionali e ragionevoli di fronte a una crisi che coinvolge tutti noi è esercizio per pochi, come per pochi è riuscire a constatare, parafrasando Alexis de Tocqueville, che la lucidità si perde quando non si è più degni e capaci di esercitarla. Nel mondo dei social è il momento del panico, della voce dell’esperto che ci parla di scenari apocalittici, di un presente fosco e di un futuro incertissimo. I social sono diventati una fiera degli orrori consapevolmente e colpevolmente messa in piedi da ognuno di noi, portatore sano di pettegolezzo da noia social.
E’ una escalation vergognosa di frenetiche, irrazionali e spesso immotivate notizie rigonfie di inesattezze pubblicate al solo scopo di riempire gli ego smisurati di pseudo saccenti e intellettuali da tastiera, in cui i social giocano un ruolo di amplificatori del sentito dire (l’uso smodato e a casaccio delle mascherine e dei guanti ne è solo un esempio). Una cosa però è certa: la mancanza di saggezza, di lungimiranza e di responsabilità pre emergenza è rimasta tale e quale anche ora di fronte a uno scenario di rovine. Lo stato di eccezionalità nel quale viviamo come sospesi è come se avesse militarizzato non solo le nostre uscite all’aria aperta, ma anche, sotto altri punti di vista, i nostri comportamenti social; nei vasti interstizi comunicazionali offertici in lunghe ore di attesa messianica di un annuncio che ci ridia la tanto agognata normalità, usiamo ancor di più i social media per far crescere non la speranza e la voglia di riscatto dopo decenni di irresponsabilità ecologica, ma per amplificare la tendenza già in atto a soffiare sul fuoco della paura in questi anni già ben divampato nelle coscienze degli individui. Il virus inoltre oggi potrebbe ben rappresentare, grazie al tam tam dei social e non solo, la realizzazione finale di quel desiderio di sicurezza tanto agognato dalla middle class occidentale. Maggior sicurezza esige minore libertà, le due cose, come ci ha insegnato Bauman, rappresentano il pendolo della storia: “quanto più arriviamo vicino al nostro ideale di sicurezza, tanto più onerosi e irritanti diventano i vincoli crescenti ma inevitabili imposti alle nostre libertà; mentre quanto più siamo vicini alla piena libertà, tanto più diventiamo insofferenti verso il caos e l’imprevedibilità”.
Ho come l’impressione che allo stato attuale abbiamo operato la nostra scelta, ci siamo indirizzati cioè verso un modello sociale che di fronte a crisi, problemi ed emergenze che toccano da vicino, troppo da vicino, le nostre vite, ci predispone ordinatamente a rinunciare a dosi di libertà, a subire severe e dure limitazioni dei nostri liberi spostamenti, a diffidare scientemente dell’altro (ora anche e soprattutto per motivi di salute pubblica) per dosi sempre più massicce di sicurezza. La politica annaspa, e con lei anche noi, nei flussi dell’informazione, un magma indistinto nel quale naufragano ben presto tutte le nostre iniziali buone intenzioni. La globalizzazione portata all’esasperazione, al consumo dunque sono, alla trascuratezza delle più elementari regole di convivenza sociale, a un relativismo etico cresciuto nel pessimismo dell’intelligenza e nell’ottimismo della volontà (una volontà spesso becera, egoistica, xenofoba trainata nell’indeterminatezza del web), ci ha illusi e continua a farlo di possedere sempre soluzioni e risposte a problemi di natura globale. Ben venga allora in tempi tristi e di coscienze spente la lenta e inesorabile abolizione del prossimo se disposizioni governative ci assicurano che, alla fine, è kafkianamente più sicuro essere in catene che libero.