E anche questo Torneo delle Sei Nazioni si è concluso nel peggiore dei modi per la Nazionale italiana di Rugby. L’Inghilterra, anche se ha dovuto faticare molto nel cercare di ottenere i punti che, alla fine della giornata, gli hanno consentito di vincere il Torneo, ci ha permesso di segnare solo 1 meta. Va anche detto, però, che il XV guidato da Eddie Jones era convinto di sbancare l’Olimpico con almeno 60 punti di differenza; ma gli uomini di Franco Smith, ci hanno messo così tanta buona volontà, una efficace difesa, soprattutto nel primo tempo, e alcune azioni da manuale, riuscendo a fermare il risultato sul 34-5. Ma il copione, rispetto alla precedente edizione, non è cambiato: poco possesso, ripartenze lente, male nei punti di incontro e nei raggruppamenti. Sembra lontanissima quell’ultima vittoria che risale al 2015. Se escludiamo qualche successo decoroso nei test match estivi o autunnali dell’ultimo quinquennio, vincere un match nel Six Nations, è divenuta un’impresa molto difficile per l’Italia. E alla fine di ogni competizione, per dovere di cronaca, siamo tenuti ad analizzare i motivi di questo ennesimo fallimento (perché non c’è aggettivo più appropriato).
Pertanto, anche questa volta, bisogna scrivere che l’Italrugby non va proprio! E sono tanti i tratti involutivi che fino a oggi hanno delineato il volto del XV italiano, partendo proprio da quella vittoria a Edimburgo contro la Scozia, arrivata nell’ultima fase della gestione Brunel. Motivazioni possono essercene tante, e non possiamo farne solo una questione tecnico-federale del rugby azzurro. Così come non sembra corretto trovare a tutti i costi un capro espiatorio che sia la causa dell’inceppamento di un meccanismo che non si è mai rodato a dovere. Tutto sommato, da cronisti, non possiamo non mettere inevidenza che, alla fine dei conti, qualcosa non quadra e che qualcuno o qualcosa deve pur essere responsabile o causa di quel fallimento. E allora, di chi è la colpa? O qual è la causa? Da una parte abbiamo una Federugby che, sin dalla fine degli anni ’90, ha sempre dato il massimo per portare e tenere gli Azzurri nell’agone internazionale della palla ovale, riuscendo, soprattutto, nell’intento di stimolare l’interesse dell’opinione pubblica italiana nei confronti di uno sport, ahimè ancora oggi, considerato di nicchia nel nostro Paese; ma di più non può fare!
Dall’altra ci sono cause socio-culturali molto difficili da affrontare, soprattutto se le Istituzioni non decidono di investire in programmi sportivo-educativi a partire dai gradi inferiori della Scuola. In sintesi, in Italia la società è troppo calcio dipendente e manca la cultura nel considerare il rugby una valida alternativa a uno sport che il più delle volte ha mostrato di non avere quei valori alla base dell’agonismo: rispetto dell’avversario, dell’arbitro e delle regole. Pertanto, è una questione di mancanza di vivai da cui attingere. Se non si inizia a diffondere su tutto il territorio una cultura del rugby, facendola entrare nei programmi socio educativi scolastici, e investendo anche in infrastrutture, la situazione non cambierà mai. Solo l’ampliamento dei vivai giovanili, possono dare linfa a un movimento sportivo che arranca in campo internazionale. La strada è lunga, ma è l’unica via che porta a quell’inversione di tendenza negativa che ammanta l’Italrugby da troppo tempo.
(Photo courtesy Six Nations.com)