L’ex-Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha lanciato una class-action contro Facebook, Twitter e Google per tentare di costringerli per vie legali a riaprire i suoi profili social. Secondo Trump ed i suoi legali, i giganti del web avrebbero violato i suoi diritti enunciati dal Primo Emendamento della Costituzione americana, impedendogli l’accesso ai social media, che il tycoon utilizzava come principale cassa di risonanza delle sue istanze politiche, fondamentalmente senza mai ricevere alcuna opposizione in questo da parte delle compagnie, ad eccezione del periodo di campagna elettorale per le presidenziali 2020. Il blocco definitivo è arrivato dopo l’assalto effettuato da parte di migliaia di supporters conservatori a Capitol Hill il 6 gennaio, giorno della ratifica dell’elezione di Joe Biden. Secondo i social media in questione, Trump avrebbe messo in atto una continua campagna di disinformazione, scaduta infine nell’incitamento alla violenza e alla sovversione. In tal modo, l’ex-Presidente avrebbe violato in maniera grave e persistente i termini di servizio delle compagnie.
Per i legali di Trump, però, Facebook, Twitter e Youtube non andrebbero più considerate come delle compagnie private, che in quanto tali possono decidere chi ammettere sulle proprie piattaforme e chi no, bensì come “attori di Stato”, le cui azioni sarebbero quindi sottoposte alle restrizioni del Primo Emendamento, che vieta limitazioni governative alla libera espressione.
Non servirebbe neanche un’analisi di particolare profondità per capire che, di fronte alle motivazioni addotte dalla class-action in questione, sembra molto improbabile che Donald Trump possa avere la meglio. Infatti, in questo caso, come spiegato al Washington Post da Paul Barret, vicedirettore del Dipartimento di Business e Diritti Umani dell’Università di New York, “Trump usa l’argomentazione del Primo Emendamento in un modo totalmente errato”. Infatti, continua Barret, “Facebook e Twitter stesse hanno il diritto, enunciato dal Primo Emendamento sulla libera espressione, di determinare quali discorsi le loro piattaforme mostrino ed amplifichino. Questo diritto include il ban di chi incita alla violenza, come Trump ha fatto rispetto ai fatti del 6 gennaio di Capitol Hill”.
La mossa dei legali di Trump, dunque, appare perlopiù mediatica ed improntata a fidelizzare e polarizzare ulteriormente il proprio elettorato, sulla scia di quanto fatto con i numerosissimi ricorsi sulle presunte (e mai dimostrate in alcun modo) frodi elettorali in occasione delle presidenziali. Ricorsi che sono stati giudicati irricevibili ed infondati da praticamente tutti gli addetti ai lavori, dai media ai giudici, compresi i più conservatori, ma che hanno trovato un fortissimo sostegno nell’elettorato trumpista, quello stesso elettorato di cui una rappresentanza particolarmente infervorata ha poi dato vita ai fatti di Capitol Hill. Adesso è il turno dell’attacco ai social media: Trump perderà quasi certamente la causa, ma essa gli servirà per avvalorare la propria tesi secondo cui le voci conservatrici verrebbero silenziate sul web. Creare nemici, dichiarare di essere attaccato, ergersi al ruolo di vittima: è questa, sin dalle elezioni 2016, la strategia di Donald Trump. È evidente che non cambierà, e che ci dovremo fare l’abitudine già in vista delle elezioni di midterm del 2022.