I TALEBANI CONQUISTANO IL PANJSHIR

Analisi critica degli avvenimenti afghani, dopo la presunta caduta dell’ultimo barlume di resistenza

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Chi? Cosa? Dove? Quando? Perché? Ore convulse, eventi convulsi. Partiamo dalla terza domanda, delle cinque fondamentali del giornalismo: ‘dove’. Afghanistan, Asia. Più precisamente nel Panjshir, una delle sue province. Questo lembo di terra, corrispondente all’omonima valle, era l’ultima zona afghana a non essere stata conquistata dall’avanzata talebana. Fino a ieri, quando anche Barzak è caduta. Ora che tutte le domande primarie hanno ricevuto una risposta, inquadriamo il Panjshir, nome salito alla ribalta solo nelle ultime ore ma pressoché sconosciuto ai più. Per gli appassionati di storia questo nome non sarà nuovo, essendo la terra natale di Ahmad Shah Massoud (il generale conosciuto postumo come il Leone del Panjshir) nonché lì dove si è consumata la resistenza contro le invasioni sovietiche. E un’altra resistenza era in corso, sotto il comando di un altro Ahmad Massoud, figlio del Leone. Inquadrato meglio dove si stanno sviluppando gli ultimi eventi, può essere utile un ripasso di quanto ha preceduto gli aggiornamenti.

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L’offensiva talebana tutt’ora in corso si sta caratterizzando per conquiste territoriali particolarmente rapide, dato che nell’arco di poche settimane (a partire dalla ritirata statunitense) Kabul è caduta, 33 dei 34 capoluoghi di provincia afghani sono stati conquistati ed è nata la cosiddetta Resistenza del Panjshir. Veniamo, dunque, all’attualità: “con questa vittoria il nostro Paese è ora completamente fuori dal marasma della guerra – asserisce Zabihullah Mujahid, portavoce dei talebani – alcuni degli insorti sono stati sconfitti mentre i rimanenti sono fuggiti dalla valle, noi serviremo insieme per un obbiettivo e una nazione”. Ma il focus di chi guarda con occhio esterno va spostato su un inquadramento critico di quanto sta avvenendo in quelle zone. Senza timore di essere smentiti, la conquista dell’Afghanistan da parte dei talebani è classificabile come un mezzo fallimento della NATO, con gli Stati Uniti che hanno deciso di deporre le loro armi onde evitare una prosecuzione senza né capo né coda di un conflitto durato 20 anni.

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Non saranno più volate contraeree fisiche, ma metaforiche sì: da un lato Armin Laschet (capo dell’Unione Cristiano-Democratica di Germania) ha dipinto gli avvenimenti di questo agosto come “la più grande sconfitta delle Nazioni Unite fin dalla sua nascita e un significativo cambio di epoca con cui dovremo confrontarci”, dall’altro Joe Biden ha respinto quelle che da lui sono state definite millanterie sottolineando come gli obbiettivi dell’invasione del 2001 fossero la distruzione delle basi Al-Qaeda e uccidere Osama bin Laden. Entrambi raggiunti, nulla più. Il Presidente americano ha evidenziato come un eventuale non ritiro delle truppe non avrebbe cambiato il finale dell’offensiva dei talebani, ricevendo in cambio dure critiche anche dal suo Partito Democratico: il The New York Times riporta che “anche se l’amministrazione Biden aveva ragione a porre fine alla guerra non c’era bisogno che finisse in un tale caos, con così poca previdenza per tutti coloro che hanno sacrificato così tanto nella speranza di un Afghanistan migliore” (fonte: La Presse, 19 agosto 2021), mentre per il The Washington Postla caduta dell’Afghanistan è stato un disastro evitabile” aggiungendo che “Biden avrebbe potuto rinegoziare l’accordo del ritiro raggiunto dal suo predecessore, certamente le continue violazioni compiute dai talebani del patto gli avrebbero dato una ragione legittima per farlo(fonte: AGI, 19 agosto 2021).

Francesco Bulzis

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