Stati Uniti, Francia e Regno Unito hanno attaccato tre obiettivi militari in Siria. L’intervento congiunto è stato disposto in segno di ritorsione per l’attacco chimico compiuto il 7 aprile a Douma, dal regime del presidente Bashar al-Assad. Per ora si è trattato di una “one night operation”, un’operazione unica durata poco più di un’ora, con tre obiettivi principali: un sito di ricerca a Damasco, sospettato di essere legato alla produzione di armi chimiche e biologiche, un deposito di armi chimiche a ovest della città di Homs, più a nord, ed una importante postazione militare del regime siriano, sempre vicino a Homs.
Quello tra Iran e Israele è tuttavia un focolaio che rischia di esplodere. I due Paesi sono sostenuti rispettivamente da Russia e Stati Uniti e rappresentano le forze principali della regione. A differenza di un anno fa, quando 59 missili americani piovvero dal cielo siriano, però, non c’erano uomini iraniani sul terreno. Oggi i pasdaran sono presenti in forze nelle zone di Damasco e di Aleppo e questo è già di per sé motivo di grande allarme per Israele. Non solo, questa presenza accresce il rischio di “incidenti”, voluti o accidentali, contro le stesse forze iraniane.
Il governo russo, alleato di Assad, ha condannato i bombardamenti di questa notte e ha detto che ci saranno conseguenze. Nelle ultime ore in molti si stanno chiedendo proprio questo: che succede ora? C’è il rischio che inizi una nuova grande guerra in Siria, con uno scontro diretto tra Stati Uniti e Russia? La risposta breve è: probabilmente no.
L’attacco chimico del 7 aprile, e i molti altri compiuti dal regime siriano nei mesi precedenti con il cloro, hanno mostrato come le scelte di Assad sulle armi chimiche non siano cambiate, nonostante l’attacco di un anno fa. Dopo il bombardamento a Douma del 7 aprile era necessario per gli Stati Uniti e i loro alleati trovare un punto di equilibrio tra due esigenze: punire Assad per quello che aveva fatto, ma allo stesso tempo evitare un attacco così intenso da scatenare la reazione della Russia. La soluzione è stata trovata con l’attacco della notte scorsa. I missili usati sono stati il doppio rispetto alla ritorsione dell’aprile 2017 – quindi più di un centinaio – e gli obiettivi colpiti sono stati tre, al posto che uno solo. La maggiore estensione e intensità dell’attacco ha permesso ai governi di Stati Uniti, Francia e Regno Unito di parlare di una punizione più severa di quella dello scorso anno, ma non così severa da rischiare uno scontro aperto con la Russia. Il Pentagono ha detto che l’attacco ha colpito solo una parte del sistema siriano di produzione di armi chimiche, che però “è stato portato indietro di anni”.
Dopo aver seguito per tutta la notte l’evoluzione della crisi siriana, il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ha parlato alla stampa italiana. “L’azione della notte scorsa è stata una risposta motivata all’uso di armi chimiche a Douma e purtroppo non è la prima volta che si utilizzano armi chimiche da parte del regime siriano in questi anni di conflitto. E’ stata un’azione circoscritta – continua il presidente del Consiglio, che riferirà martedì in Senato – mirata a colpire le capacità di fabbricazione o di diffusione di armi chimiche e non può e non deve essere l’inizio di un’escalation”. Questo è quanto l’Italia a tutti livelli dai governi alle diplomazie ai rapporti tra autorità militari ha ribadito nei giorni scorsi e continuerà a ribadire nei prossimi giorni. L’Italia non ha partecipato a questo attacco militare, lo hanno condotto gli Stati Uniti e i due paesi europei membri del Consiglio di Sicurezza, la Francia e il Regno Unito. Sono Paesi alleati. E, sebbene con gli Stati Uniti l’alleanza è ovviamente molto forte, non si è tradotta nel fatto che dal territorio italiano partissero azioni direttamente mirate a colpire la Siria.
Intanto, proprio per l’emergenza dettata dalla situazione, il 24 e 25 aprile, a Bruxelles, è stata convocata la Conferenza internazionale sulla Siria. Sperando che, in quella sede, si stabilisca la linea per uno sforzo di responsabilità di tutta la comunità internazionale, in primo luogo dei Paesi che hanno il maggior ruolo in quella drammatica crisi.