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CRONACA FALSA

Orientamento della Corte di Cassazione per disegnare un bilanciamento tra il diritto di cronaca e la tutela della reputazione, entrambi di rango costituzionale, è quello secondo cui il giornalista deve scegliere la notizia che sia caratterizzata dall’interesse sociale alla conoscenza del fatto, dalla continenza del linguaggio usato per esprimerla, dalla verità del fatto narrato e dall’attualità. Che succede, però, se il giornalista dà spazio a una dichiarazione offensiva riferita da altri durante una intervista, addirittura su fatti che risultano falsi?

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Un principio merita di essere segnalato ed è quello che emerge dalla sentenza n. 6911 della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione del 22 febbraio 2016, secondo cui, dato per scontato che l’autore delle dichiarazioni offensive sarà colpevole del reato di diffamazione, non risponde di concorso in diffamazione il giornalista che riporta dichiarazioni offensive non veritiere ma che soddisfano l’interesse della collettività ad essere informata. Ma c’è una condizione, però, ed è che, per andare esente da censura, il giornalista deve dare spazio a dichiarazioni provenienti da soggetto che riveste una posizione di pubblico rilievo.

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Il caso preso in esame dagli ermellini riguarda un giornalista che riportava dichiarazioni di una intervistata gravemente offensive della reputazione di alcuni appartenenti alle forze di polizia, in quanto, secondo la versione di questa persona, una perizia avrebbe accertato che la vittima dell’omicidio aveva patito lesioni ad opera degli appartenenti alle forze dell’ordine. Il fatto non era risultato vero ed il giornalista aveva quindi subito un processo per diffamazione da cui la Corte ritiene debba andare assolto. Il motivo dell’assoluzione risiede nel fatto che, secondo la Cassazione, non si può pretendere che un giornalista intervistatore controlli la verità storica del contenuto dell’intervista, poiché ciò comprimerebbe la libertà di stampa e con essa il diritto-dovere di informare l’opinione pubblica su tale evento.

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I Giudici, poi, fanno un ulteriore passo avanti verso la modernità comunicativa post – bacchettona, poiché dal loro pensiero si evince che nemmeno si può pretendere di assegnare al giornalista l’onere di purgare il contenuto dell’intervista dalle espressioni offensive, non solo perché sarebbe assurdo costringerlo ad una manipolazione censoria che non gli compete, ma soprattutto per l’esigenza stessa di tutelare la genuinità della notizia, costituita appunto dal giudizio non lusinghiero espresso da un soggetto noto al pubblico.

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Dunque è fondamentale innanzi tutto verificare che le dichiarazioni provengano da un personaggio noto ed affidabile, anche se questi aggettivi si trasformano spesso in qualificazioni dai contorni sfuggenti e sulle quali prevedibilmente si rincorreranno le successive pronunce in argomento, e in ogni caso l’analisi del Giudice dovrà concentrarsi sulla verifica della imparzialità del giornalista nel riportare fedelmente quanto riferito dall’intervistato, poiché in caso di manipolazione egli diventerebbe un coautore della diffamazione, un complice che andrà punito secondo le disposizioni che regolano il concorso di persone nel reato (art. 110 c.p.).

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Come dire: se riporto il contenuto di una intervista che mi rilascia Vittorio Sgarbi, lui si becca la solita querela mentre io mi diverto, mi faccio leggere e sono a posto; se invece trascrivo o trasmetto le ingiurie di mio nonno all’indirizzo del Governo ladro perché piove, si diverte solo lui (il nonno), il mio articolo non se lo fila nessuno e io me ne vado in galera. E mi sembra giusto così.

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16 Aprile 2016