La “visual culture, ossia il rapporto che si instaura tra sguardi, dispositivi ottici/media e immagini nel contesto, è una nuova disciplina che si è’ sviluppata nell’ambito delle scienze della comunicazione.
Le origini della definizione di «cultura visuale» sono rintracciabili negli scritti di autori che, nel corso degli anni Venti, hanno rivolto attenzione all’impatto che la fotografia e il cinema stavano avendo sulla cultura loro contemporanea.
Il critico e teorico del cinema Béla Balàzs e l’artista Làszlò Moholy-Nagy, entrambi di origine ungherese ma attivi in Austria e in Germania, utilizzano i termini «visuelle Kultur», «optische Kultur» e «Schaukultur».
Vent’anni più tardi sarà il regista e teorico francese Jean Epstein (L’Intelligence d’une machine, 1946) a fare ricorso al termine «culture visuelle». In quanto «machine» dotata di una propria «intelligence» – vale a dire di una capacità di ripensare la realtà secondo la prospettiva della propria identità tecnica – il cinema ha profondamente condizionato, secondo Epstein, la cultura.
Nel primo volume di teoria del cinema, L’uomo visibile (1924), Béla Balàzs celebra l’avvento di una visuelle Kultur fondata sul primato dell’immagine sulla parola, ossia un ritorno a una condizione che precede il primato della parola e del pensiero astratto promosso dall’invenzione della stampa.
Richiamandosi alla distinzione introdotta dal Laocoonte di Lessing (1766) tra arti dello spazio come la pittura e la scultura, che operano con segni che stanno «gli uni accanto agli altri», e arti del tempo come la poesia e la musica, che operano con segni che vengono «gli uni dopo gli altri», Balàzs afferma che le immagini cinematografiche registrano e restituiscono sullo schermo l’immediata e simultanea visibilità delle cose «le une accanto alle altre»: lo spettatore si trova in una condizione di prossimità con le cose.
Lo spettatore cinematografico non si trova più di fronte a un mondo chiuso in sé, distante, bensì viene accompagnato dalla cinepresa nel mezzo delle cose. Si tratta di un riavvicinamento al mondo concreto delle cose, capace di eliminare il filtro astraente e atrofizzante delle parole e dei concetti. Gli attori e le attrici del cinema muto degli anni Dieci e Venti vengono considerati da Balàzs come interpreti esemplari di un nuovo linguaggio gestuale capace di oltrepassare tutte le barriere sociali e nazionali.
Moholy-Nagy distingue tra un uso «riproduttivo» (convenzionale) e un uso «produttivo» (sperimentale, creativo) dei media ottici. Se usati in modo produttivo sarebbero in grado di modificare profondamente il campo visivo.
La luce artificiale doveva essere considerata secondo Moholy-Nagy come un «medium di espressione plastica»: una materia che poteva essere artificialmente organizzata nello spazio attraverso diverse forme di «configurazione ottica» prodotte da dispositivi che l’artista doveva saper elaborare attraverso un’approfondita competenza tecnologica. L’obiettivo avrebbe dovuto essere quello di dar vita a una nuova «cultura della luce», che avrebbe fatto emergere nuovi fenomeni e nuove forme. L’uomo moderno sarebbe stato sottoposto a una vera e propria «educazione dello sguardo».
Negli anni Quaranta, Jean Epstein fa un uso interessante del termine «cultura visuale»; il cinema viene presentato come una «macchina con cui pensare il tempo», capace di modificare non solo il campo della creazione artistica ma anche la cultura nel suo insieme: una cultura intesa non come l’insieme delle opere prodotte da un’élite sociale erudita, ma piuttosto come quei «modi di pensare più semplici e comuni» che, presi insieme, determinano il «clima mentale di un’epoca». La storia mostra come la comparsa di ogni nuovo strumento «riconfigura» e «riorganizza» i nostri modi di vedere. La nuova «cultura visuale» introdotta dal cinema è diametralmente opposta a ogni concezione della realtà fondata sull’idea di un «mondo stabile e solido».
Il movimento colto e rappresentato dal cinema non è solo un movimento fisico, ma anche un movimento psichico, delle emozioni.
Il concetto di «visual culture» ricompare tra la metà degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta nei lavori di due storici dell’arte, Michael Baxandall e Svetlana Alpers.
Baxandall impiega il concetto di «visual culture» nel celebre studio Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento: lo scopo del libro è quello di mostrare la correlazione esistente fra lo stile pittorico proprio di una determinata cultura e di una determinata società e le «capacità visive» che si sviluppano e si consolidano nella vita quotidiana di tale società. Capacità visive che non nascono direttamente dalla contemplazione di immagini artistiche.
Le immagini che oggi consideriamo come artistiche non possono essere studiate, secondo Baxandall, come oggetti autonomi rispetto al contesto esperienziale più ampio in cui si collocano la loro produzione e la fruizione. Il concetto di cultura visuale non viene dunque impiegato per descrivere una cultura caratterizzata da un primato del visivo, come in Balàzs, né la nuova cultura dello sguardo promossa dai media ottici, come in Moholy-Nagy. Baxandall sottolinea l’importanza di ricondurre gli stili pittorici di un qualunque periodo storico all’insieme delle abitudini percettive e degli stili di visione e di conoscenza propri della società all’interno della quale circolano determinate immagini. Alla radice vi è la convinzione che sia possibile distinguere due diverse dimensioni del vedere: una fisiologica, a-storica e invariabile, e una psicologico-cognitiva, variabile sia da individuo a individuo sia storicamente.
Svetlana Alpers nel suo Arte del descrivere. Scienza e pittura nel Seicento olandese (1983) sostiene che, a differenza dell’arte rinascimentale italiana, quella olandese del Seicento è un’arte essenzialmente descrittiva e non narrativa: il suo realismo è finalizzato a una descrizione quasi fotografica del mondo visibile. La pittura olandese deve essere compresa facendo riferimento al contesto più ampio che la circonda: il contesto culturale e sociale in cui si collocano la produzione, la circolazione e la fruizione di immagini artistiche e non-artistiche:
«non è dunque la storia dell’arte olandese, ma la cultura visuale olandese […] Se il teatro era il luogo in cui l’Inghilterra elisabettiana rappresentava se stessa nel modo più completo, in Olanda questo ruolo era svolto dalle immagini. E la differenza tra queste due forme di rappresentazione rispecchia bene la differenza tra le due società […] In Olanda si dipingeva di tutto: dagli insetti e dai fiori agli indigeni brasiliani in grandezza naturale, agli arredi domestici degli abitanti di Amsterdam»
Sia in Baxandall sia in Alpers, al centro dell’attenzione vi sono ancora delle immagini artistiche e il richiamo al contesto più generale delle forme di visione e alla produzione di immagini non-artistiche che circolano in un determinato contesto storico continua ea essere finalizzato a una migliore comprensione di tali immagini artistiche.