Machiavelli sul “bene comune”
“Vi avvedrete ancora a vostri di che differenza è avere de’ vostri cittadini soldati per elezione e non per corruzione, come avete al presente: perché (…) uscendo dalle scuole oneste e dalle buone educazioni, i cittadini potranno onorare sé e la patria loro”. (Machiavelli, La cagione dell’ordinanza, 2002, pag. 476)
“I modi pubblici sono quando uno, consigliando bene, operando meglio in beneficio comune, acquista riputazione. A questo onore si debba aprire la via ai cittadini, e proporre premii e ai consigli e alle opere, talché se ne abbiano ad onorare e soddisfare. (…) Le vie private sono faccendo beneficio a questo e a quello altro privato, col prestargli denari , maritargli le figliuiole, difenderlo dai magistrati e facendogli simili privati favori, i quali si fanno gli uomini partigiani e danno animo, a chi è così favorito, di potere corrompere il pubblico e sforzare le leggi. Debbe, pertanto, una repubblica bene ordinata, aprire le vie, come è detto, a chi cerca favori per vie pubbliche, e chiuderle a chi li cerca per vie private”. (Machiavelli, Discorsi, III, pag. 536)
Machiavelli si serve della nozione di “bene comune” in alcuni scritti redatti sia in qualità di Segretario della Seconda Cancelleria quanto in molte sue opere post res perditas.
Nei suoi scritti ufficiali Machiavelli ricorre alla nozione di “bene comune”, “bene pubblico” e “utile pubblico”, per illustrare la figura del cittadino virtuoso disposto ad assumere non solo cariche pubbliche, ma anche a far parte della milizia cittadina.
I cittadini devono perseguire il bene comune e l’utilità pubblica nella loro città, e non il bene privato: il bene comune viene definito anche come “amore per la patria”. In realtà, il tema della dedizione del cittadino al bene comune della sua città, che dimostra anche l’amore verso la patria, era un tema diffuso nella cultura quattrocentesca dell’umanesimo civile, individuando fini comuni fra soggetti politici diversi, siano essi repubbliche, ducati o stati, che si misurano in uno spazio politico altamente conflittuale.
Quando si confrontano corpi politici diversi, dotati di potenza militare differente, l’ appello al “bene comune” manifesta tutta la sua fragilità. Machiavelli, infatti, era ben consapevole che nell’arena internazionale non esiste alcun “bene comune” condiviso, né si dà alcun ordine politico stabile. Se si considerano il ritorno dei Medici e la rinuncia forzata al ruolo di Segretario di Machiavelli, nel testo De Principatibus non sono presenti né le definizioni di bene comune né di tirannide, invece nel capitolo ottavo Machiavelli usa l’espressione “utilità pubblica” affrontando il problema delle “crudeltà male usate o bene usate”.
Riguarda il tema della crudeltà in politica, Machiavelli osserva nel Principe che, essendo gli “uomini tristi”, quando perseguono la “propria utilità” (Principe, XVII, 2013, pag. 119), rompono facilmente gli obblighi contratti. Nei Discorsi il “bene comune” ritorna contrapposto al “bene proprio” o al “bene particolare”. L’ “ambizione propria” viene contrapposta al “bene comune”, perseguita attraverso vie private ricorrendo a “sette” o “partigiani”, che accompagnano il ricorso al modo privato di acquistare reputazione e che corrompono il “vivere libero” della repubblica,
Machiavelli contrappone repubblica a principato: la repubblica consente la realizzazione piena del bene pubblico, che avvantaggia i “tanti” e danneggia i “pochi”, mentre il principato è imperniato sul “bene particolare” del principe. Così scrive infatti nei Discorsi: “Quando vi è un principe, (…) il più delle volte quello che fa per lui offende la città, e quello che fa per la città, offende lui”. (Discorsi, II, pag. 297). Sono soprattutto i “pochi”, i “grandi”, coloro che appartengono alle élites ricche delle città, a battere le vie private e cercare di far prevalere la loro personale ambizione.
Privilegiare il bene comune assicura la stabilità della città e del suo governo: privilegiare il “bene particolare” facilita la crescita della mala contentezza e favorisce la “variazione” dei governi. Nelle Istorie fiorentine ritornano i concetti per opposizione: il perseguimento del “bene proprio” o dell’”ambizione propria” e la “tirannide” sono forme di governo degenerato.
Nel terzo libro delle Istorie fiorentine, Machiavelli menziona gli “amatori del bene comune”, in contrapposizione a coloro che sono “del bene comune destruttori”. (Istorie fiorentine, III, pag. 350). Nel terzo libro della “Repubblica fiorentina”, lo storico Donato Giannotti così scriveva: “I grandi desiderano comandare, non solamente non conferiscono al bene comune, ma lo distruggono, perché chi vuole comandare, vuole che gli altri siano servi. Ed egli solo essere libero; (…) e chi ha questo desiderio, vuole distruggere la città e per conseguente, il bene comune”. (D. Giannotti, Repubblica fiorentina, I, 1850, pag. 169)
Il pensiero di Machiavelli attua una netta rottura con ogni tentativo di fondazione filosofica di tipo ontologico. Il bene comune è costituito dagli ordini e dalle leggi che consentono la vita della repubblica e costituiscono il tessuto comune della repubblica: senza questa dimensione comune, non è possibile l’esperienza del vivere libero, della libertà nella repubblica. È soltanto la libertà pubblica a rendere possibile la libertà privata.
Machiavelli era consapevole della tragica difficoltà di mantenere una forma accettabile di eguaglianza fra i cittadini, soprattutto in città che fossero prede della “corruzione” e teneva ben presente le precondizioni economiche e sociali necessarie all’esperienza della libertà nella repubblica.
Il bene comune non è una finzione che legittima coloro che detengono il potere, ma dà voce all’”universale” e serve per controllare l’ambizione dei singoli, che spesso appartengono all’”umore” dei grandi: singoli che vogliono far prevalere il loro bene “particolare” , arruolando i “partigiani” e determinando la corruzione del vivere libero.
Proprio per il suo carattere contingente, nel corso del tempo la politica non può essere altro che un perenne esercizio di ricerca e di realizzazione del bene comune, anche accettando quelle forme di bene comune che appaiono come “meno tristi”. La politica, tuttavia, deve continuare a impegnarsi nel tenere a freno le tendenze dissolutive della corruzione, in modo da conservare un ordine politico e una forma di “equalità’” accettabili, nella consapevolezza della propria costitutiva fragilità.
Possiamo allora chiederci se Machiavelli sia effettivamente l’esponente del realismo politico. Il pensiero di Machiavelli non può essere ristretto riconducendo il suo pensiero a un tipo di realismo politico ed alle diverse ideologie politiche come delle semplici finzioni, volte a mascherare gli interessi delle classi politiche che si alternano al potere. Al contrario, il bene comune non è una finzione che legittima coloro che detengono il potere, anche se, ben consapevole dei limiti della natura umana, l’agire politico non si svolge in città perfette, ma deve “pigliare il meno tristo per buono”.(Principe, XI, 2013, pag. 164).
La proposta di Machiavelli non è soltanto quella di pensare un possibile bene comune senza fondamenti metafisici e teologici, ma di pensarlo a partire dalla convinzione che ogni città ed ogni comunità politica, strutturalmente divisa in “umori” diversi, ha modi diversi di rapportarsi all’esperienza della libertà, non solo come “amore alla patria”, ma pur nel conflitto politico, deve perseguire nel tempo la realizzazione dell’”equalità” e fondamentalmente del “bene comune”.
Fine
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Bibliografia
Niccolò Machiavelli, Istorie fiorentine, in, Opere storiche, a cura di A. Montevecchi e C. Varotti, Salerno editrice, Roma, 2010
N. Machiavelli, Il Principe, a cura di G. Inglese, Einaudi, Torino, 2013
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