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DEL DESERTO E DELLE OASI: IL MONDO VISTO DA HANNAH ARENDT – La funzione della politica – Seconda Parte

Il concetto di mondo

Qualunque attività impegni l’esistenza umana è segnata dalla pluralità, ma solo l’azione e il discorso non avrebbero nemmeno senso di esistere se gli uomini non si trovassero insieme nello stesso spazio. Nel mondo moderno, la catastrofe nucleare fa luce sull’interdipendenza delle distinte sfere che compongono sia la realtà mondana che la condizione umana, o meglio fa vedere che la dimensione spaziale e la pluralità si co-appartengono.

Nella sua seconda accezione il mondo è in-between nel senso che nel suo spazio, questa volta intangibile ma comunque esperibile, gli esseri umani accedono alla dimensione politica della vita activa. I prodotti dell’azione e del discorso insieme costituiscono il tessuto delle relazioni e degli affari umani. Considerati isolatamente, essi mancano non solo della tangibilità delle altre cose, ma sono anche meno durevoli e più futili di ciò che produciamo per il consumo. La loro realtà si fonda interamente sulla pluralità umana, sulla presenza costante di altri uomini che possono vederli e sentirli e quindi testimoniare della loro esistenza.

Mentre la fabbricazione ha bisogno della presenza della natura e dei suoi materiali, e di un in-fra artificiale ovvero di uno spazio in cui collocare il prodotto finito, l’azione e il discorso necessitano della presenza degli altri uomini. Se l’azione come cominciamento corrisponde al fatto della nascita, se questa è la realizzazione della natalità, allora il discorso corrisponde al fatto della distinzione, ed è la realizzazione della condizione umana della pluralità, cioè del vivere come distinto e unico tra esseri uguali.

L’azione e il discorso compongono con il loro intreccio un mondo comune: esse sono complementari e solo la loro compresenza permette agli individui di rivelare l’unicità della loro identità personale, ovvero di distinguersi gli uni tra gli altri. Le condizioni della nascita e della pluralità possono trovare solo nell’in-fra di tipo relazionale la loro “redenzione” dalla necessità della vita (ciò che mette in moto il lavoro) e dall’incombenza della mortalità (ciò che stimola l’opera). Infatti, come evidenziato anche da Goetz e Younés, la condizione mortale non coincide mai, per Arendt, con una determinazione: l’uomo si caratterizza quale vivente che ha bisogno della politica per diventare pienamente ciò che può essere, ovvero tentare di determinare il più possibile le proprie condizioni d’esistenza.

Al mondo come dimora costruito dall’homo faber si sovrappone il mondo relazionale, autentica sede della politica e spazio in cui gli uomini esprimono al massimo grado la loro paradossale situazione esistenziale, simultaneamente condizionata e auto-determinata. Se la dimensione politica del mondo è lo spazio in cui gli individui si rapportano direttamente alla condizione fondamentale della loro esistenza, ovvero la pluralità, allora questo è il mondo che fonda l’umanità dell’esistenza.

La politica si fonda sulla pluralità degli uomini. Dio ha creato l’Uomo, gli uomini sono un prodotto umano, terreno, il prodotto della natura umana. Poiché la filosofia e la teologia si occupano sempre dell’Uomo, e tutti i loro enunciati sarebbero giusti anche se esistesse soltanto un Uomo, o soltanto due Uomini, esse non hanno trovato una valida risposta alla domanda: che cos’è la politica?

Il mondo, in quanto spazio dell’esistenza, poggia sulla terra, in quanto spazio della vita; al suo interno, inoltre, il mondo si scinde, a seconda delle attività compiute dagli umani, tra spazio del fare e dell’agire. Il mondo relazionale esiste sia nella misura in cui sta tra gli individui come ciò che interessa loro – in quanto oggetto dell’agire e del discorso, sia come dimensione che visibilizza l’azione in quanto tale, in quanto permette agli uomini di stare al mondo gli uni tra gli altri.

Nell’orizzonte acosmico, lo spettro della guerra totale permette la messa a fuoco di questa composita struttura del mondo, una struttura sfaccettata che, da un lato, appare quale realtà artificiale, risultante dalla reificazione tipica dell’opera umana, e, dall’altro lato, si dimostra intangibile, ovvero “fatta” di azioni e parole.

Ciò che lega insieme i due aspetti del mondo è la loro complementarità che pertiene alla loro diversa durevolezza: il primo è esposto all’uso e non è mai esente dal rischio del consumo, ma può costantemente essere riprodotto; il secondo produce ‘storie’ che trascendono la mortalità in quanto esulano dalla temporalità dell’opera, ma che, per tale motivo, sono irriproducibili. Ma se questo mondo viene devastato, allora alle leggi dell’agire politico si sostituisce la legge del deserto. Trattandosi di un deserto tra uomini, esso scatena processi devastanti che recano in sé la stessa smodatezza insita nel libero agire dell’uomo, dal quale si creano le relazioni.

Ma quali sono le prospettive offerte dal mondo moderno alla riflessione sulla politica? In primo luogo, l’episodio della bomba, considerato isolatamente, provoca una brusca inversione dello sguardo sul mondo, che da universale torna ad essere terrestre: solo tramite la ridefinizione dei confini tra sfera umana e naturale è possibile sperare in una reinterpretazione del mondo nei termini di una dimensione esperienziale, contingente, condizionata e tuttavia trascendente la mera fattualità. Ma è la guerra devastatrice, di cui è possibile immaginare la ricomparsa sotto forma di guerra nucleare, a suscita re la presa in esame del doppio carattere del mondo umano mettendone in luce la paradossale tessitura che determina la sua peculiare vulnerabilità.

In base a quanto detto, il conflitto tra le attività del fare e dell’agire umano, per come si configura sotto forma di guerra nucleare, rimanda in ultima istanza alla natura aporetica dell’azione. In quanto evento, l’esplosione atomica rivela che il mondo prodotto dagli uomini dipende da, senza coincidere con, quello che essi realizzano agendo: tra i due c’è una sostanziale tensione perché manifestano due attività fondamentalmente eterogenee che perseguono finalità diverse.

La prima s’inserisce entro un contesto di razionalità strumentale ed è finalizzata all’edificazione di un mondo; in questo primo senso, scrive Bazzicalupo, “il mondo è oggettività, e chi nasce si trova sempre in un mondo di cose che lo precedono e che spesso dureranno dopo di lui: è quindi una condizione trascendentale dell’esperienza esistenziale, il senso primordiale e originario della durata e della stabilità”. Nella sua seconda accezione di spazio in-fra, al contrario, il mondo dell’azione ignora il mondo delle cose perché esso promana dalla condizione di pluralità e non dall’appartenenza-al-mondo.

Già in Vita activa, Arendt aveva tratteggiato il carattere disinteressato dell’azione come unica garanzia di accesso ad un’esistenza propriamente umana. Con la parola e con l’agire ci inseriamo nel mondo umano, e questo inserimento è come una seconda nascita, in cui confermiamo e ci sobbarchiamo la nuda realtà della nostra esistenza fisica originale. Questo inserimento non ci viene imposto dalla necessità, come il lavoro, o dall’utilità, come l’operare. Può essere stimolato dalla presenza di altri di cui desideriamo godere la compagnia, ma non è mai condizionato. Il suo impulso scaturisce da quel cominciamento che corrisponde alla nostra nascita, e a cui reagiamo iniziando qualcosa di nostra iniziativa.

Questa descrizione permette di avvicinare il punto più denso di implicazioni originali della riflessione arendtiana a proposito dello statuto di “mondo”: dato che l’attività politica è condizionata dalla pluralità e quest’ultima è, a sua volta, la condizione dell’azione, l’in-fra relazionale acquista i caratteri di instabilità e imprevedibilità.  L’esplosione nucleare manifesta che i tratti aporetici dell’azione, l’irreversibilità e l’imprevedibilità, sono diventati i caratteri dell’operare: l’azione è diretta contro il mondo prodotto dagli uomini.

Una possibile analogia che consente di approfondire la nozione di “mondo” di Arendt, mette in luce l’originale significato politico che gira intorno alla categoria dell’azione: la natalità dell’uomo si radica nella sua nascita, così come la pluralità degli uomini dipende dalla natura terrestre della loro comparsa comune nel mondo. In entrambi i casi, si tratta di rendere ragione del carattere sostanzialmente non naturale della politica che è, al contrario, il riflesso della qualità inaugurale, miracolosa, dell’azione umana.

La legge della mortalità ci ricorda che gli uomini sono nati per cominciare; questa definizione esprime chiaramente che il mondo ha un senso perché inizia con la libertà che gli uomini rendono attuale, autodeterminandosi rispetto alle leggi della mera vita. Quest’ultima è il limite al di là del quale il mondo come spazio dell’azione finisce e comincia la terra.

Il mondo rivela il suo complesso aspetto, la sua doppia matrice fattuale e contingente, proprio nel momento storico in cui la sfera naturale e le capacità dell’azione sono state screditate e dirottate, per così dire, l’una contro l’altra, nel tentativo di arginare il senso di estraneità che scandisce alla nascita il primo impatto degli uomini con l’esterno.

Arendt ripete in molti testi che la prima condizione degli uomini che nascono nel mondo è quella dell’essere stranieri: ciò è determinato dal fatto che nella nascita due elementi eterogenei vengono a intrecciarsi e scontrarsi. La realtà del mondo in perenne mutamento impatta contro degli esseri che sono tutti diversi ma accomunati dal medesimo bisogno di familiarizzare con l’ambiente esterno: quest’ultimo è estraneo solo perché sono gli individui ad essere inediti e irripetibili.

In un testo del 1970, “La disobbedienza civile”, l’autrice chiarisce infatti che ciò che distingue la terra dal mondo è la qualità del loro divenire: il mutare della terra è ciclico e ripetitivo, mentre il mondo umano può cambiare perché in esso accadono le azioni degli uomini. Il cambiamento è inerente ad un mondo abitato e costituito da esseri umani che nascendo vi entrano come estranei e nuovi venuti (véoi, i nuovi, come i greci solevano chiamare i giovani), e lo lasciano al momento in cui ne hanno fatto esperienza e si sono familiarizzati con esso.

Il mondo è cambiato ed è diventato acosmico, proprio perché sono le attività umane ad aver mutato drasticamente la loro potenza di impatto sulla terra: il ciclico andamento che determina la natura della terra è adesso soggetto a trasformazioni che le azioni e i prodotti degli scienziati contribuiscono a accelerare. La terra non definisce più il mondo umano e il senso di spaesamento “slitta” su tutto ciò che è dato: persi i contatti con l’origine terrestre, l’azione ha perso i suoi confini e perde il suo carattere politico perché si ritorce contro il mondo. 

È in uno dei quaderni di Arendt che si trovano esplicitate tali posizioni, dalle quali emerge nitidamente il paradossale statuto dell’esistenza mondana degli uomini. La terra è la condizione di ogni vita. Le cose condizionano la vita umana, non l’uomo. Fabbricando cose, l’uomo si crea sulla terra condizioni umane.

Queste condizioni sono la sua casa. L’uomo è a casa propria sulla terra, soltanto se è condizionato da cose che egli stesso produce, se si muove in esse; così egli non è mai incondizionatamente a casa propria sulla terra. Essere incondizionati significa rinunciare alle cose e non riconoscere la terra come dimora incondizionata.  Questo è il significato della morte per l’uomo condizionato dalle cose. Alla luce di queste riflessioni, è concesso di dire che il mondo moderno è l’epoca in cui gli uomini hanno rinunciato al mondo. La bomba atomica rende infatti fattibile l’eliminazione della terra come “dimora condizionata”.

Questo pericolo di autodistruzione porta Arendt a interrogarsi, verso la fine della sua vita, circa il senso della politica. Il pregiudizio che ha sostenuto la concezione della politica è che essa sia connaturata agli uomini, ma la messa a repentaglio della vita in tutte le sue forme resa immaginabile dopo la scoperta dell’energia atomica, permette di interrompere questo pregiudizio e mostrare che la finalità dell’azione degli uomini è il mondo stesso.

Se è vero che la politica non è altro che un male necessario alla sopravvivenza dell’umanità, allora il suo senso si è bruscamente capovolto in insensatezza. L’uomo non ha una natura ma può vivere solo in condizioni naturali: ciò significa che egli, in quanto vivente, è un essere universale perché fa parte di una natura di cui egli ha fatto conoscenza “con gli occhi dell’universo”.

La questione politica che qui Arendt intravede è di centrale importanza: se l’alienazione della terra ha ormai raggiunto compimento in un mondo acosmico sradicato dalla sua natura terrestre, ciò significa che ad essere minacciata è la condizione della pluralità. Il mondo infatti è l’in-fra, ovvero ciò che sta tra gli uomini non appena questi si radunano in uno stesso spazio agendo in esso: tramite l’azione essi appaiono come plurali e non più come i molteplici esemplari di una specie animale.

Sottolineando più volte che “gli uomini abitano la terra”, Arendt conferma che il mondo è una realtà che esiste per fare durare la terra intesa come il suolo d’origine della pluralità. Come si evince molto chiaramente in Che cos’è la politica? l’autrice propone una ricomprensione del mondo come spazio in cui la condizione umana possa manifestare la propria capacità di trascendere la fattualità, senza misconoscerla: “la politica – può dunque affermare Arendt – si fonda sul dato di fatto della pluralità degli uomini”.

Dio ha creato l’Uomo, gli uomini sono un prodotto umano, terreno, il prodotto della natura umana. Il dato naturale della diversità che connota gli esemplari della specie umana impedendo loro di sentirsi completamente a loro agio nella natura, può essere assunto dagli uomini ed attualizzato nei termini della pluralità, una dimensione che permette l’azione inteso come gesto fondatore di un mondo che, pur radicato sulla terra, la trascende. “Senza questa trascendenza in una potenziale immortalità terrestre, nessuna politica strettamente parlando, nessun mondo comune, nessuna sfera pubblica, è possibile (…)”. Esso esiste perché gli esseri umani assumono il loro sentimento di spaesamento connaturato al loro essere nati per attivare un nuovo sguardo sul mondo.

Come Arendt stessa non manca di sottolineare in queste ultime riflessioni, proprio il pericolo incombente sull’età attuale di trasformare il mondo in un deserto, stimola a prendere congedo da una politica preoccupata solo per l’uomo. Secondo l’autrice, infatti, il mondo diventa un deserto se non ci sono gli uomini: essi soli sono in grado di farlo esistere.

Ma è possibile seguire Arendt oltre: il nuovo pensiero politico deve assumere quale prospettiva sul mondo lo spazio della terra perché è là che ha origine la comparsa plurale degli esseri umani. La terra impone uno sguardo plurale sul mondo e in tale modo funge quale limite contro l’acosmismo dell’azione che connota il mondo moderno. Solo il riconoscimento della condizione terrestre quale presupposto della presenza plurale degli uomini può restituire al mondo il suo ruolo eminentemente politico, la sua natura di spazio in-between.

La politica occidentale, preoccupata a gestire la vita dell’individuo in quanto generico rappresentante della specie umana, combinandosi al progresso tecno-scientifico ha, da un lato, privato gli uomini dell’esperienza dell’oggettività stessa del mondo e, dall’altro, minaccia la sopravvivenza stessa dell’umanità sulla terra. Proprio nel momento in cui la presenza dello sfondo naturale è definitivamente messa in questione dalla bomba nucleare, il carattere terrestre del mondo recupera il valore di limite che rende possibile l’edificazione di un mondo umano inteso quale spazio oggettivo tra gli uomini e la natura stessa.

La tensione interna all’individuo tra necessità e libertà si riflette, in quella mondana, tra natura e artificio: solo accettando l’antinomica struttura dell’individuo e del mondo è ipotizzabile rimettere in moto l’azione politica e la comparsa di un mondo che ne permetta la manifestazione. Tenere distinte la dimensione della terra da quella del mondo, così come la sfera privata da quella pubblica, è fondamentale per ristabilire quale sia il senso autentico dello spazio che gli uomini instaurano non appena interagiscono tra di loro.

(Continua)

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Data:

5 Giugno 2025

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