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DELLA LIBERTA’ E DELL’IMMAGINAZIONE – II^ PARTE

Esteriorizzazione e tecnica

Tanto a livello biologico che socio-etnico e individuale, l’intelligenza tecnica non è altro che l’esteriorizzazione dei processi che nella sfera animale sono interiorizzati nella zoè. Per poter essere, l’uomo deve costantemente esteriorizzare i propri gesti. Il livello di esteriorizzazione è direttamente proporzionale all’aumento del dislivello tra la zoè e il mondo artificiale frutto di questo processo. L’esteriorizzazione infatti, è la prestazione biologica fondamentale dell’uomo.

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Scrive l’antropologo francese Leroi-Gourhan: “se non è possibile mantenere il parallelo con il mondo zoologico, non è possibile non tener presente che la specie umana si modifica un po’ ogni volta che cambiano gli utensili e le istituzioni”. La storia delle tecniche e dei sistemi sociali è quindi sempre storia di mutamenti antropologici. Secondo Leroi-Gourhan, il livello simbolico-immaginativo, in quanto afferente all’intelligenza tecnica è espressione dell’attività esteriorizzante propria dell’umano: “La realizzazione nel corso dei tempi di un organismo sociale in cui l’individuo interpreta sempre più la parte di cellula specializzata, fa risaltare via via con maggiore chiarezza l’insufficienza dell’uomo in carne ed ossa, vero e proprio fossile vivente, immobile su scala storica, perfettamente adeguato al tempo in cui trionfava sul mammut, ma già superato nell’epoca in cui i suoi muscoli spingevano le triremi. La continua ricerca di mezzi più potenti e più precisi avrebbe inevitabilmente portato al paradosso biologico del robot che, attraverso gli automi, ossessiona da secoli lo spirito umano”.

Tale fenomeno è un’acquisizione piuttosto tarda e limitata ad alcune civiltà dell’Eurasia in cui per la prima volta comparvero le prime macchine a trazione animale (carro ed aratro), mosse da acqua (imbarcazioni) e vento (mulino). Questo processo è una vera e propria esteriorizzazione della potenza dell’organismo in un corpo esterno che si sostituisce al corpo fisiologico, in cui la manualità interviene solo per dare origine o per sospendere il processo.

Ma la vera innovazione si ebbe nel XIX secolo con l’invenzione della macchina a vapore, che consacrò definitivamente l’esteriorizzazione del muscolo pur in un sistema cieco dal punto di vista regolativo richiedente ancora l’intervento umano: “di fronte ad essa l’operaio è il cervello che rende utile la forza”.

La macchina automatica, conquista delle nuove frontiere dell’elettronica, della cibernetica e dell’informatica, capace di autoregolamentarsi grazie all’ausilio di un sistema nervoso artificiale più o meno complesso, inaugura una frontiera della tecnica in cui l’esteriorizzazione dell’umano e di tutti i suoi tratti specifici è quasi completamente ultimata.

L’automazione meccanica corrisponde alla penultima tappa di quel processo evolutivo avviato dall’Australantropo:La liberazione delle zone della corteccia cerebrale motrice, acquisita definitivamente con la stazione verticale, è completa a partire dal momento in cui l’uomo esteriorizza il suo cervello motore. Al di là di questo si può solo immaginare l’esteriorizzazione del pensiero intellettuale, nella costruzione di macchine in grado non solo di giudicare, ma di intendere l’affettività, di prendere partito, entusiasmarsi o disperare di fronte all’immensità del loro compito. Dopo aver dato a questi apparecchi la possibilità di riprodursi in modo meccanico, non resterebbe allora all’homo sapiens che ritirarsi definitivamente nella penombra paleontologica”.

L’uomo antiquato dunque descritto da Gunther Anders è leggibile in quest’ottica come risvolto potenziale inscritto sin dall’inizio nell’evoluzione dell’uomo.

Tra Anders e Leroi-Gourhan: del destino dell’Homo sapiens

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Il livello massimo di esteriorizzazione coincide con la definitiva uscita dell’umano dalla soglia storica, ed è qui che le filosofie di Anders e Leroi-Gourhan trovano una comune articolazione.

La tecnica diviene soggetto della storia in senso andersiano proprio in quanto esito del processo evolutivo dell’Homo sapiens, in cui il culmine della libertà raggiunto nell’immaginazione è allo stesso tempo l’abdicazione della soglia storica in favore dei prodotti dell’ esteriorizzazione dell’uomo. La tecnica come rischio della consunzione globale si impone quindi come il compito più urgente per il pensiero, che nella sua dimensione etico-simbolica si configura come unica via d’uscita dal dislivello tra la zoè e il mondo artificiale.

Il mondo odierno senza il divino è quindi un mondo tecnico; “al punto che non possiamo più dire che, nella nostra situazione storica, esiste tra l’altro anche la tecnica, bensì dobbiamo dire: la storia ora si svolge nella condizione del mondo chiamata ‘tecnica’; o meglio la tecnica è ormai diventata il soggetto della storia con la quale siamo soltanto ‘co-storici’”.

La figura dell’uomo superato dalla propria tecnica, che da diversi anni caratterizza non solo la filosofia, ma anche l’immaginario collettivo, il cinema e la letteratura, mostra l’urgenza di una “antropologia filosofica nell’epoca della tecnocrazia”. Nella sua opera principale sull’uomo antiquato, Die Antiquiertheit des Menschen, apparsa in due volumi, il primo nel 1956 e il secondo nel 1980, Günther Anders affronta questo spinoso ma ineludibile problema. Per tecnocrazia non si intende tanto il dominio dei tecnocrati, quanto “il fatto che il mondo in cui oggi viviamo e in cui tutto si decide sopra le nostre teste è un mondo tecnico”.

In questo orizzonte la tecnica diviene un problema filosofico, anzi il problema filosofico per eccellenza, per varie ragioni: in primis perché il mondo in cui oggi viviamo è un mondo tecnico, in cui lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa ha radicalmente mutato la nostra esperienza del mondo trasfigurando il cosiddetto mondo reale in immagini pre-interpretate. Il concetto stesso di esperienza subisce qui una radicale modificazione: se l’esperienza è il risultato di un’elaborazione concettuale di dati sensibili, per dirla con Kant, la tecnica interviene modificando proprio le strutture concettuali e i limiti della nostra percezione sensibile e del nostro immaginario.

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Questo determina la discrepanza tra il nostro immaginare e rappresentare il mondo e il nostro produrre. La distanza rappresentativa posta dai media tra l’evento e la sua immagine percepita, comporta nell’umano un deficit percettivo ed immaginativo, un vero e proprio dislivello tra le nostre facoltà, che Anders chiama dislivello prometeico, determinando la differenza tra la nostra capacità di produrre (herstellen) e la nostra capacità di rappresentare (vorstellen) il prodotto della nostra azione.

Il mondo in cui viviamo è un mondo di apparati (Apparatenwelt), in cui tecnica e progresso costituiscono gli imperativi categorici. Nell’Apparatenwelt come totalità di technei onta, si realizza il rovesciamento ontologico tra mezzi e fini, soggetto ed oggetto; l’uomo si ritrova ad essere il mezzo, una materia prima, per l’indefinito perpetrarsi dello sviluppo tecnico-economico, pertanto se il mezzo nella storia dell’ominazione ha costituito appunto il medium tra uomo e mondo, oggi è l’uomo il medium tra il mondo di apparati e il mondo naturale. Questo porta la tecnica a divenire il soggetto della storia, al punto che il mondo tecnico è un mondo deideologizzato, in quanto essa è un fenomeno trasversale che eccede e precede la situazione politica; il mondo globale è sempre e sin dall’inizio interamente tecnicizzato.

Ma è nell’ideazione e nella deflagrazione a Hiroshima della bomba atomica nel ’45, che Anders individua la cesura fondamentale della storia umana, nella possibilità reale dell’annichilimento globale. La bomba è l’evento che segna la fine della storia e realizza materialmente la prospettiva dell’annullamento dell’uomo e di tutto l’esistente da parte delle macchine e quindi della tecnica stessa.

A tal proposito Günther Anders parla di “ineluttabilità della tecnica” per indicare la logica coattiva del progresso tecnico-scientifico. Scrive Anders: “Il possibile è quasi sempre accettato come obbligatorio, ciò che si può fare come ciò che si deve fare. Non solo ciò che si può fare si deve fare, ma anche ciò che si deve fare è ineluttabile”. In breve, tutto ciò che può essere realizzato tecnicamente deve essere realizzato, è questo l’imperativo categorico dell’epoca della tecnica. Inoltre ogni utilizzazione potenziale del prodotto deve esser messa in atto, poiché la tecnica “vuole” che lo sia; poche sono le tecnologie empiricamente realizzabili che non siano poi state effettivamente impiegate.

La realizzazione dell’atomica è già di per sé l’inveramento materiale dell’Apocalisse, è una scadenza: la finis historiae. La scoperta dell’energia nucleare non è semplicemente una novità fisica, ma un evento di portata metafisica: il nostro in-der-Welt-sein si dà come un non esserci-ancora, noch-nicht-sein. L’epoca della tecnica è quindi un tempo ultimo e irreversibile, che costituisce una soglia storica che caratterizzerà le epoche a venire, apportando radicali modificazioni al paradigma antropologico che si caratterizza come dislivello tra l’uomo e la tecnica.

Questa sovrastruttura, costituita da tutto l’apparato esteriorizzato in tecnica e cultura, interamente immaginaria ed esteriorizzata, frutto dell’attività poietica oggettivata nella tecnica e nel linguaggio, finisce per rendere antiquata la struttura fisiologica da cui è stata originata.

Se le cose stanno in questi termini, è lecito porre la questione del destino dell’Homo sapiens come specie biologica.

La soggezione e il sopravanzamento dell’umano a favore della Apparatenwelt, la regressione culturale e la liberazione da ogni attività del pensiero e forma di apprendimento attiva, la delega pressoché totale di ogni nostro operare specifico ai nostri apparati, forse non sono altro che le premesse per una nuova mutazione antropologica adattata alle mutazioni dell’ambiente sociale in cui la virtualizzazione del concreto e la riproduzione tecnica della physis costituiscono le istanze fondamentali.

Forse, il destino dell’uomo è davvero, quello di essere superato. Il nostro non esserci-ancora “noch-nicht-sein” non è dettato solo dalla possibilità della minaccia di un olocausto nucleare -come minaccia Putin a giorni alterni-, bensì dalla contraddizione immanente tra la nostra struttura e necessità zoologica e la nostra dimensione tecnica, volta a liquidare ed esautorare l’esistente e con esso l’uomo stesso.

Se l’esito della libertà umana, in cui l’immaginazione è sin dall’inizio coinvolta nel gesto e nella parola, è l’asservimento alla tecnica, nulla lascia intravedere uno spiraglio di salvezza. Libertà e destino umani sono due facce della stessa medaglia, ma se è vero che l’uomo, teso sopra l’abisso tra bestia e l’ Übermensch, è il suo proprio progetto esteriorizzato, questa fine corsa potrebbe essere l’inizio di una nuova era, se l’uomo impara ad essere all’altezza di ciò che è stato.

La fine dei tempi

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Se l’uomo non è un essere fisso, privo com’è di una natura vincolante, allora bisogna contemplare la possibilità di estendere la sua immaginazione morale. L’incremento della nostra dimensione etica e simbolica, sempre in ritardo rispetto a tecnica e zoè, deve accompagnare il nostro prender possesso del mondo naturale.

L’indefinito perpetrarsi dello sviluppo tecnico-economico può essere contrastato solo da un potenziamento dell’immaginazione, che in quanto facoltà dei fini pone la questione del nostro operare. È nella prospettiva di una cultura superiore, di una Bildung che plasmi nella dimensione spirituale il nostro ethos, che si gioca la “conservazione ontologica” dell’umanità e dell’esistente nella sua totalità.

La prospettiva di una Endzeit che è al contempo Zeitende come esito dell’epoca della tecnica può essere la possibilità della fine di tutte le cose o di un nuovo inizio. L’umanità può autodistruggersi o dare vita a un tipo superiore, o, per dirla con Hölderlin, “là dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva”.

Fine

Bibliografia

Günther Anders, L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, tr. it. L. Dallapiccola, Bollati Boringhieri, Torino 2003, Die Antiquiertheit des Menschen, Beck Verlag München 1956, 1980, apparsa in due volumi, il primo nel 1956 e il secondo nel 1980.

G. Anders, Die Weltfremdheit des Menschen, pubblicato in Francia con il titolo Une interpretation de l’aposteriori, in, “Recherches philosophiques IV”, Bovin & Cie, Paris 1934-35.

G. Anders, Tesi su «bisogni», «cultura», «bisogni culturali», «valori culturali», «valori», in Saggi dall’esilio americano, tr. it. S. Cavenaghi e A. G. Salluzzi, Palomar, Bari 2003.

Andrè Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, tr.it. F. Zannino. Einaudi, Milano 1977.

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DELLA LIBERTA’ E DELL’IMMAGINAZIONE – I^ PARTE

Data:

1 Gennaio 2023