È ormai entrata a far parte delle patologie contemporanee. È da considerarsi una malattia come le altre, con l’unica differenza che qui si parla di computer e, nello specifico, di internet. Facebook, Twitter, Google Plus, WhatsApp e similari, sono sinonimo ormai non solo di social, ma anche di Internet Addiction Disorder (IAD), la malattia del nuovo secolo.
Il giornale Huffington Post fa menzione di questa nuova patologia collegata ai media sul suo sito e ricorda come sia stato il Regional Medical Center di Bradford, in Pennsylvania, a proporla e a suggerire anche un percorso per i malati finalizzato a commercializzare un vero e proprio trattamento per iniziare la disintossicazione da surplus di web. Il costo si aggira attorno ai 14mila dollari, più o meno 11mila euro, e ha una base di ricovero di dieci giorni in cui al paziente è negato qualsiasi contatto con dispositivi che permettano la connessione alla Rete.
Ad affiancare questa terapia d’urto vi è però anche un periodo di riabilitazione e di rieducazione con laboratori e seminari sugli effetti patologici e negativi dell’eccesso d’uso del web. La clinica americana, ma più in generale la sanità Usa, evidentemente considera come un dato acquisito che il troppo uso, e dunque l’abuso, della navigazione in Rete possa essere una causa per l’insorgere di nuove e pericolose patologie per l’organismo e per la psiche dell’individuo. Del resto anche nel resto del mondo, a conforto della tesi e dell’iniziativa americana, vi sono settori della medicina che in molti paesi hanno aperto facoltà e laboratori per cominciare a curare l’uso compulsivo e gli effetti devianti di computer, web e giochi per piattaforme (In Italia da due anni opera il primo ambulatorio dedicato alle dipendenze da Internet).
Non solo. In Giappone, Corea e Cina, paesi che ormai viaggiano al ritmo di milioni di connessioni in pochi anni, si è pensato addirittura ad una specie di green therapy, con l’organizzazione di colonie in campi all’aperto dove riunire tutti i dipendenti dal web per una disintossicazione stile figli dei fiori e love and peace. Rimanendo però negli Usa, anche qui si è pensato di ricorrere a questa specie di “diete naturali” attraverso ritiri bucolici in California attraverso i quali liberarsi da dipendenze cyber-sessuali, relazionali e di net gaming. L’idea è venuta a Felix Levi che ha creato addirittura un brand per promuovere i suoi camp e retreats, il Digital Detox. Immersi nella natura incontaminata, gli affetti da uso maniaco compulsivo del web e i dipendenti dall’essere sempre on line, sguazzano nel fango, partecipano a giochi di società, si divertono insieme. Tornano allo stato di natura. Tornano insomma bambini e cominciano a riapprezzare le piccole cose della vita, quando ancora non c’era tutta questa ingombrante e invasiva tecnologia.
Non siamo ai livelli dell’inizio del secolo scorso, quando psicologi, sociologi ed esperti mettevano in guardia dai pericoli dell’avvento del cinema e della radio con toni che sfioravano il catastrofismo, ma la Rete sta indubbiamente creando una società che è sempre (troppo) connessa e sempre più dipendente dalle nuove tecnologie per non lanciare un grido d’allarme. “Depressione, irritazione, ripercussioni sulla vita familiare e alterazioni delle performance scolastiche o professionali sono sintomo di dipendenza”, ha detto l’esperta di fenomeni patologici legati alle nuove tecnologie, Laurent Karila.
Oggi però appare pressoché impossibile, oltre che poco realistico, privarsi di Internet, uno strumento che fa parte della nostra esistenza sociale e lavorativa. Diventa allora indispensabile fissare un limite d’uso per non diventarne dipendenti e andare in overdose cognitiva. In caso contrario, perlomeno sappiamo che, sì, ci si può ammalare di Internet ma che si può anche guarire.