Dia rideva nel suo letto. Rideva come un pazzo mentre il medico lo guardava imbarazzato. Non si aspettava questa reazione, quando gli aveva detto che tutto quello che si era portato in ospedale era stato distrutto da infermieri tanto zelanti quanto esagerati.
Ma quello era un reparto di malattie infettive e, all’epoca, forse si usava distruggere tutti gli effetti personali dei ricoverati. O forse lo avevano fatto solo con i suoi, perché era straniero, o perché non aveva un bell’aspetto, magro e sofferente com’era.
In quella valigia c’era tutta la vita di Dia: le sue carte, i suoi ricordi, le sue poesie e soprattutto il suo manoscritto. Erano anni che lavorava a quel libro, ma non era facile: era sempre in difficoltà economiche, doveva trovare il modo di sopravvivere e scrivere poesie non era sufficiente, e poi le preoccupazioni per il suo paese in guerra. Dia era un poeta, ma anche un dissidente politico. Era fuggito dall’Iraq anni prima e non poteva più tornare, troppo pericoloso. Ma era casa sua, e voleva trovare il modo di ricordarla attraverso le parole, di riviverla attraverso le sue memorie che cercava di ricostruire a fatica.
Non si fidava a lasciare il manoscritto in quello scantinato buio e umido dove viveva, perché già un’altra volta, durante un ricovero in ospedale, qualcuno era entrato per distruggere tutto. “per disinfettare”, la scusa ufficiale. Ma il manoscritto si era miracolosamente salvato. Questa volta non voleva rischiare, e lo aveva portato con sé. Sempre più debole, solo, abbandonato da quasi tutti gli amici che un tempo gli erano stati vicini, l’unico stimolo ad andare avanti era scrivere la sua storia.
Ma ecco che il lavoro di anni era andato irrimediabilmente perduto. Dia era sconvolto, ma nella disperazione di quel momento trovò un’ancora di salvezza in una sfida con sé stesso. Lo avrebbe riscritto, tutto dall’inizio alla fine, e questa volta non in arabo, ma in italiano, la lingua del paese che lo aveva accolto, per superare la barriera dell’esilio, dell’incomunicabilità, della diffidenza.
E così mentre il medico che non capiva il perché di quella risata si girava dall’altra parte per non dover chiedere e non dover capire, Dia decideva di combattere ancora per poter scrivere la sua storia, anche per far capire proprio a chi non lo conosceva, che lui non era solo quel povero, malato e abbandonato in un letto d’ospedale, ma una persona, uno scrittore, con un ricchissimo mondo interiore.
Nonostante le sue condizioni, Dia riesce a scrivere il suo libro, in una lingua che non è la sua, e riesce a pubblicarlo: “Lontano da Baghdad” viene infatti pubblicato nel 1994. È un libro pieno di amore per la sua città, ma anche pieno di voglia di vita, di ricominciare, di trovare il proprio posto in un mondo, che sembra invece respingerlo ovunque vada.
Ma questa è una storia triste, perché pochi mesi dopo la pubblicazione del libro, Dia che sperava di poter finalmente lasciare quello scantinato che era costretto a chiamare casa e di trasferirsi in una casa vera con le finestre che fanno entrare i raggi del sole, finisce di nuovo in ospedale.
E muore da solo, lontano da Baghdad e lontano da tutti.
Lui che sognava il sole, e sognava con le sue parole di “fare breccia in una parete, attraverso la quale filtri la luce che annuncia il cielo”.
Il libro di Dia (Thea Laitef), Lontano da Baghdad, con la presentazione di Pino Blasone, è stato pubblicato da Sensibili alle foglie nel 1994.
Lontano da Baghdad
non si può capire Baghdad.
Lontano dagli altri
non potrà capirci gli altri.
…non potran capirci…