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DISINFORMAZIONE – Paure infondate e colpe degli utenti

Disinformazione e propaganda digitale sono un problema che ridefinisce il concetto di opinione pubblica? Oppure sono effetti secondari amplificati artatamente dai media? Dietro la logica della disinformazione, se di logica si può parlare, vi è una tecnologia ben attrezzata a diffondere viralmente ogni tipo di notizia e in cui la razionalità sembra non farla da padrona. Il condizionamento dell’opinione pubblica oggi passa sempre più spesso da metodi in grado di plasmare, almeno in potenza, gran parte del pubblico social. Il risultato è un grado di percezione spesso amplificato ed esagerato di una realtà fatta di paure e angosce, in modo tale da costruire sempre più una narrazione fatta apposta per indottrinare un pubblico specifico e solo davanti a uno schermo. Il filtro algoritmico, la cui influenza, sembra operare come un deus ex machina contrario a ogni morale, espone ogni individuo a scorribande di contenuti che formano alla lunga ecosistemi altamente nocivi e fuorvianti. L’informazione diventa allora una faccenda personale e chiusa all’interno di bolle, in cui le convinzioni preesistenti si rafforzano sempre di più, lasciando da parte ogni possibile discussione del proprio e altrui punto di vista. Indignazione, paura, rancore hanno corsie preferenziali nel racconto della cosiddetta realtà, acquisendo forti dosi di viralità grazie anche alla propensione per concetti brevi, forti, gridati, scandalistici e sensazionalistici.

Si aggiunga anche la mancanza di un vero centro di potere al quale fare riferimento per appoggiarsi nella faticosa ricerca della verità o presunta tale, data l’assoluta mancanza di volontà per gran parte del pubblico di un ricorso a determinate istituzioni informative in quanto esse risultano delegittimate per via di una fiducia nei loro confronti sempre più crescente. Se l’informazione giornalistica, nell’epoca in cui i giornali avevano ancora un’aura di legittimità e rispetto da parte del pubblico, oggi rivaleggia (perdendo) con contesti emotivi in cui persino i canali tradizionali perdono di credibilità, e in un panorama nel quale le stesse testate cartacee si abbassano a scimmiottare tecniche di click bait pur di accaparrarsi qualche lettura in più, vuol dire che la distinzione tra ciò che è vero e ciò che è falso perde di importanza, rendendo il racconto inautentico e coerente solo agli occhi di chi si rivede ideologicamente. Tornando dunque alla domanda iniziale, sarebbe allora più giusto ammettere prima di tutto che la disinformazione non è specificatamente un prodotto nato dopo l’avvento dei social, in quanto aveva una sua esistenza anche molto prima, solo che oggi abbiamo la possibilità di avvertirne un possibile pericolo solo perché è stata resa pubblica e di “moda” grazie al tam tam mediatico e accademico; la disinformazione che tanto fa paura a chi parla di assenza di democraticità e di caduta dell’opinione pubblica, ha effetti per la verità molto limitati se rapportati alla maggioranza della popolazione.

Essa cioè ha un effetto di amplificazione e appartenenza a un’identità già ben consolidata all’interno di una certa idea. In questa direzione la mia identità sarebbe rafforzata da idee, voci, notizie che, grazie e soprattutto a causa della mia ricerca volontaria, rafforzano ulteriormente e solidificano il mio pensiero rendendo pubbliche le mie opinioni. La verità è scaduta a fatto secondario, marginale. Ciò che conta oggi è il fatto in sé, il contrasto delle narrazioni e il bisogno di riconoscimento. Si costruiscono realtà parallele che viaggiano in solitudine facendo attenzione a non incontrarsi mai, a reiterare sempre in loop un’apparente idea del mondo. I media hanno sempre avuto tra le loro peculiarità, l’enfatizzare il negativo che c’è nella realtà delle notizie, per il semplice motivo che, per ottenere audience, dev’essere data importanza a tutto ciò che produce violenza. Per la disinformazione si produce lo stesso meccanismo: «non è il fatto di essere false di per sé che rende alcune notizie più virali di altre, ma è il fatto che il loro contenuto è in grado di suscitare certe reazioni in chi legge». Per Alberto Acerbi inoltre «l’impressione che la disinformazione sia così diffusa online non è dovuta alla sua effettiva abbondanza, ma al fatto che sia facilmente disponibile e accessibile senza sforzo». Assumiamoci dunque le nostre responsabilità come agenti e interlocutori privilegiati di un mondo social nel quale siamo noi e non una “radicalizzazione algoritmica” ad autoimporre contenuti ad alto impatto emotivo.

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Data:

5 Maggio 2025

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