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ENEA – Parabola intrigante, dramma generazionale o sconfitta dell’uomo?

I Castellitto ritornano nelle sale cinematografiche con un nuovo film, familiare, generazionale, e, a tratti, distopico: tra i produttori anche Guadagnino.

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A pochi giorni dall’uscita in sala, già fa parlare di se “Enea”. Viaggiatore che, con le sue cuffiette, isolato dal mondo, dovrebbe dare vita ad una nuova “specie”, ma quanto gli costerà questo sacrificio?

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Il richiamo è chiaro, si pensa subito alla “Grande Bellezza”, produzione premiata dieci anni fa. Ma qui a essere grande è la “distruzione”, quella auto-imposta dall’uomo che non riesce più a trovare nella semplicità la vera salvezza.Ne nasce così un “gangster movie” nel quale tutti sono a tratti buoni e a tratti cattivi.A momenti insegnanti, a momenti studenti. Chi ha fatto della sua vita una “tragedia” ne esce talmente sconfitto da riapprezzare di nuovo l’amore, l’amicizia… la famiglia.

Uno dei momenti più toccanti è senza dubbio quello della lettera, letta proprio da Castellitto, dal contenuto e dai rash emotivi così intensi, che si fa fatica a trattenere le lacrime. Suggello forse dell’amore ritrovato con la moglie in crisi, perché costretta in un ambiente che non sente suo, perfetto fuori ma completamente vuoto al suo interno, ma, grazie a ciò, ritrova nel suo compagno il perduto “eroe”.

Enea è un viaggiatore futuristico, il primo uomo di Virgilio, pronto a dare vita a una nuova civiltà. Nel contempo una grande Porcaroli “Venere”, bella e malinconica, prova a salvarlo con la sua bellezza eterea e lustrini.

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Benedetta Porcaroli

“Io amo le cose belle e tu sei bella”, le risponde lui, estasiato da quel volto nostalgico.

Luci e ombre si intrecciano con l’incapacità umana di rompere delle catene, fisiche e morali.

Un fratello problematico, simbolo di una famiglia che vive di rimorsi per non aver fatto ciò che realmente avrebbe voluto. L’uomo si sente incastrato e relegato da se stesso e dalla società che lo inganna e quasi gli spezza il fiato.

Lo inganna perché sembra dargli ogni cosa e invece è proprio in “quel tutto” che riempie che si sente manchevole e svuotato.

Manchevole di sentimenti, di emozioni: eterno bambino, eterno adulto.

Con mille interrogativi a cui non riesce a dare risposta.

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Pietro Castellitto

Tra fallimenti generazionali e chiavi di rilettura troppo complicate, per essere banalizzate in questa cornice di una Roma Nord ovattata, il sesso facile non basta, infatti quasi non c’è, proprio come nella “Grande Bellezza”, in cui la ricerca del piacere sta nel l’odore “della casa dei vecchi”.

Castellitto, padre per tutto il film, scrittore, “primo colpevole” cerca saggezza e leggerezza. E la trova quando, pieno di rabbia, si sfoga in una casa chiusa, piena di oggetti da distruggere.

La stessa rabbia che coglie nei suoi pazienti.

È proprio alla fine del film che spiccherà il volo. Non rendendosi conto del declino di morte e distruzione che lascia alle proprie spalle.

Chissà se sarebbe bastato semplicemente voltarsi e guardare meglio in dietro.

Il suo matrimonio ne esce rinnovato in nuove promesse, mentre la “next generatio” che ha ancora tutto da costruire, si sente in trappola tra responsabilità e perfezione.

È forte la paura di fallire mista all’onnipotenza, sempre presente. I nuovi trentaseienni non si baciano più.

Si sposano per suggellare un’unione di facciata che dia sicurezza.

L’amore resta un tocco delicato ma “distante”, frenato dalla paura di essere rovinato se reso reale, nella paura di diventare adulti.

Nei giovani è ricerca di edonismo, di bellezza, tra droghe, festini e locali chic.

Mentre per gli adulti è fare pace, con la propria rabbia, figlia di quel rimorso del quale niente è stato come ci si auspicava.

Forse del rimpianto di non aver imboccato la strada dei propri sogni.

Sogni che invece le nuove generazioni cercano di realizzare, a qualunque costo.

Li rincorrono tra aerei, forti sfide, desiderio di schiantarsi e poi di salvarsi, per emozioni sempre più adrenaliniche e per godere finalmente della leggerezza ricercata, quando questa, al contrario, non sia semplice mancanza di emozioni vere o di sentimentalismi costretti, in cui si specchiano visi che riflettono lustrini e paillettes di una vita patinata, come quella del cinema o della musica, che rende onnipotenti.

Ci si sente Dio. Intrappolati in un ego esagerato. Si cerca una via di fuga e non si vogliono padri o padroni. Ed ecco la chiave gangster.

Il boss è uno, poi ancora un altro, poi lo stesso Pietro Castellitto che prima, ha sulla coscienza giovani ragazzi che lo hanno reso ricco per davvero (ma a che prezzo? Venti milioni) e poi non riesce svincolarsi dal desiderio di onnipotenza.

La chiave è tuttavia morale: si ha tutto ma non si ha il coraggio di meritarselo.

È una richiesta, di attenzione verso qualcuno che non ha visto i nostri bisogni più reconditi o che, per lo meno, li ha ignorati.

Allora lo scontro generazionale diventa troppo forte.

Soprattutto se non si è fatta la “fatica” di conquistarselo onestamente quel posto nella società.

Una società che non è scesa a patti con la propria moralità.

In fondo cos’è la gloria senza sudore?

L’uomo vive nella totale assenza di sentimenti.

Apatia, ebrezza di alcol, di musica, di fuochi d’artificio.

Nella bambagia di una Roma bene che di “bello” ha ormai ben poco se non il fatto di essere una città ancora splendente.

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Tra campi di tennis e festini, nei migliori locali della capitale, solo sesso, droga, violenza e rock’n roll, proprio come gli adolescenti di oggi, i quali hanno bisogno delle cuffiette per isolarsi dal mondo, e per trovare in esse l’unica via di

È il simbolo del distacco delle nuove leve, che in un sorriso perso mancano talvolta di empatia.

Nascondono difesa, ma laddove hanno bisogno di saltare fanno fatica a farlo.

A meno che quel salto non sia nel vuoto. L’uomo non ha paura della morte.

Distopico, visionario, futuristico, frustrante, ha tutto ma sente di non meritarlo.

E allora lo spauracchio della paura, della rabbia, della depressione arrivano a complicarlo.

Non si ha più paura di nulla.

Nemmeno della morte.

D’altronde la morte è assenza. Non si è più niente dopo, perché dovrebbe spaventare?

E quindi si muore. Si muore così, come se non contasse.

C’è chi prova a buttarsi dal balcone, chi si vuole immolare come omicida perché si sente onnipotente… d’altronde cosa potrebbe succedere dopo?

E morire?

La morte non fa paura.

Fa paura la sconfitta.

Essere qui senza un senso.

Senza che l’altro ci accetti nelle nostre fragilità.

E uno dei boss a fare il discorso più intenso è il primo a morire.

“È solo l’amore che ci salva.”

“Quello vero.”

Ma qual è l’amore vero?

La bellezza?

La semplicità?

La delicatezza?

Un’immagine, unica nel suo genere, come quella di una delle protagoniste, intravista per la prima volta di nascosto proprio su di un campo da tennis.

Figura eterea e angelica, più simile a una Beatrice dantesca che a Creusa, mitologica moglie di Enea, che con uno sguardo perso cerca risposte ma spesso giudica.

Fatica a reggere la pressione di un mondo in cui si sente incastrata, che non è come vuole, come auspica e come dovrebbe.

Il regista le regala poche scene e poche parole per aprirle gli occhi su una realtà patinata in cui tutti sono “pupazzi su una giostra”, manovrati da un volere più grande di loro: una dimensione di certo epicurea e atarassica in cui però, mancando proprio l’imperturbabilità come farmaco o panacea filosofico-sociologica, l’essere umano nasce infelice… e muore infelice.

Data:

18 Gennaio 2024