Quante volte ci capita di sentirci lontani da chi vorremmo essere? Di deludere noi stessi, più che gli altri? Di sentirci crollare sotto il peso delle aspettative, proprie o altrui?
Oggi più che mai, in un tempo in cui l’immagine personale è sorvegliata e scolpita come una statua da esibire sui social, ci capita di esperire stati emotivi di sconforto, di sentirci sbagliati. Dietro la felicità narcisisticamente esibita sui social come Facebook, Instagram, Tik Tok si cela un mondo sommerso e distorto, ma pur sempre umano. Come osserva il giornalista Mirco Stefanon: “continuiamo a bere del pessimo vino preoccupati che i calici siano di cristallo”. La psicologa Susan David parla di agilità emotiva intesa come l’abilità di lasciare spazio alle emozioni scomode, senza evitarle o lasciarsi governare. La vergogna, la paura e il senso di colpa possono essere ascoltati e trasformati. Chi attraversa le proprie ferite con onestà e apertura non è debole, ma emotivamente agile. Si tratta, secondo la psicologa, di essere “consapevoli di tutte le proprie emozioni, anche di quelle negative come rabbia e tristezza, e al tempo stesso in grado di accettarle e imparare da ciascuna di esse”.
A questo proposito torna in mente la figura di Eracle, simbolo di chi, ha inconsapevolmente “tradito” un’immagine di sé ideale, restandone tormentato. La tragedia euripidea anticipa in modo sorprendente temi cari alla psicoanalisi e alla filosofia esistenzialista: la frattura tra ciò che siamo e ciò che volevamo essere, tra l’idea che coltiviamo e la realtà che ci impone i suoi limiti. Non è solo un genere letterario: è un laboratorio di pensiero, un luogo in cui le grandi domande dell’esistenza umana si incarnano in personaggi, errori, crolli. L’Eracle di Euripide, sebbene scritto nel V secolo a.C., narra una storia che risuona con forza anche nel nostro presente: la storia di un eroe che, pur essendo stato capace di affrontare mostri, divinità ostili e imprese impossibili, viene tragicamente travolto da un nemico molto più temibile, se stesso.Eracle torna a casa dopo le dodici fatiche, pronto a ricongiungersi con la sua famiglia. Ha appena salvato la moglie Megara e i suoi figli dal tiranno Lico ma, per volere della dea Era, impazzisce. Vittima della follia, stermina la sua stessa famiglia. Scoperto l’infanticidio, davanti alle spoglie dei suoi cari, la tragedia è compiuta, è interiorizzata. Non c’è castigo peggiore del dover convivere con l’orrore commesso. Non è il giudizio degli altri a devastare Eracle, ma la delusione verso se stesso. La forza fisica, la gloria, le imprese eroiche: tutto perde senso. L’uomo, privato del proprio ideale, non vede altra via che il suicidio. Eppure, Euripide non chiude il sipario sulla disperazione.
Teseo, re di Atene, entra in scena come incarnazione di un’umanità possibile: non giudica, non condanna, ma tende la mano. Offre ospitalità, conforto e una via d’uscita: non dall’errore, ma dalla solitudine del dolore, perché la redenzione passa anche attraverso lo sguardo dell’altro. Teseo non è un salvatore. È presenza umana. È qualcuno che ci vede interi, anche quando ci sentiamo rotti. In questa accoglienza, discreta e profonda, inizia un lento processo di guarigione. L’Eracle impartisce una lezione di filosofia morale, una riflessione sul senso della colpa, sul limite umano e sul bisogno disperato di comprensione. Eracle non è più l’eroe invincibile.
Euripide ci restituisce la nobiltà di chi cade, ma resta umano. E’ la dimostrazione che anche i più valorosi falliscono. Affidarsi al nostro Teseo interiore è un atto di fiducia nella vita, negli altri e in quella parte di noi che, anche se a pezzi, vuole ancora essere vista, compresa, supportata. La vera ricomposizione non è negare le crepe, ma includerle in un’identità più profonda, più autentica. Chi trova il coraggio di chiedere aiuto compie il gesto più rivoluzionario di tutti: ricominciare!