Umanizziamo ciò che accade nel mondo e in noi stessi anche solo parlandone, e parlandone impariamo a essere umani.
Nel mezzo della polarizzazione, del populismo, della xenofobia e dell’ascesa di tendenze ultraconservatrici, oggi è necessario ripensare a ciò che Arendt ha definito “banalità del male”.
Arendt ha scritto della “banalità del male” in relazione all’Olocausto: il crimine più estremo compiuto con la più grande sconsideratezza, non dai suoi ideatori, che erano consapevoli di quello che stavano facendo, ma dai suoi zelanti carnefici. Ma per vedere la banalità del male in azione oggi, dobbiamo, per esempio, guardare più da vicino cosa succede quando vengono creati sistemi disumani in cui le persone servono solo per la loro utilità e produttività. La libertà non può andare disgiunta dalla giustizia sociale.
Le politiche sull’immigrazione, sebbene la loro crudeltà sia perfettamente riconoscibile, ne sono un altro esempio. Se le cattive ideologie rendono possibile il male, dobbiamo essere molto attenti alle politiche, incluse quelle governative, e alle istituzioni che dovrebbero essere meno “malvagie”. E, naturalmente, a quegli agenti, che, come Eichmann, nascondono la loro complicità con false ragioni e adducendo buone intenzioni, come quelle aziende che commettono e nascondono le violazioni dei diritti umani nei paesi ricchi di risorse, i paesi in via di sviluppo.
Walter Benjamin affermava che “la costruzione della Storia deve essere consacrata alla memoria di ciò che è senza nome”. Dobbiamo aprire i “buchi dell’oblio” e, con Arendt, “smettere di credere che si possa essere semplicemente spettatori”.
Arendt diceva anche che quello che succede ai “buchi dell’oblio” – i campi di concentramento, le carceri, i gulag, ma pensiamo anche ai campi per rifugiati (campi profughi), alle baraccopoli, ai luoghi sconnessi dove oggi rinchiudiamo gli emarginati – è che avevano un difetto cruciale: “Niente di umano è così perfetto”, e tuttavia: “Ci sarà sempre un uomo per raccontare la storia”.
In “Noi rifugiati”, Arendt mette in luce ciò che quel termine rappresenta: l’anonimato del rifugiato, la sua disumanizzazione, la perdita della casa, del lavoro, della lingua. Arendt fu piuttosto chiara nel 1943 quando scrisse quel saggio: se releghi un gran numero di persone nelle “oscure profondità della differenza”, non hai risolto nulla, hai creato solo un altro problema. Arendt aveva ragione nel pensare che la disperata situazione dei rifugiati e dei richiedenti asilo sarebbe sopravvissuta agli orrori immediati della guerra totale e del genocidio, come il pensiero totalitario è sopravvissuto anche alle sue manifestazioni fasciste più immediate.
Con oltre 28.000 migranti morti negli ultimi dieci anni nel Mediterraneo – attualmente la frontiera più mortale del pianeta – per leggere le nuove politiche di migrazione e asilo da una prospettiva arendtiana, quando si tratta di rifugiati e migranti, l’opportunità di applicare diritti reali e offrire una concreta prospettiva di vita e di inserimento in una società, viene sprecata non solo con la negazione di qualsiasi diritto, ma anche con l’applicazione di regimi umanitari, in cui le persone ricevono aiuto e protezione, ma in realtà questo non porta ad una vera soluzione del problema, che può avvenire solo attraverso l’accettazione e l’integrazione.
Si tratta non solo di diritti umani, ma le persone rimaste senza casa, vogliono una patria, un luogo dove essere visti, un luogo dove sia possibile il “diritto ad avere diritti”. Arendt era perciò cauta riguardo alle nuove strutture umanitarie istituite dopo la Seconda guerra mondiale.
Per Arendt, essere una rifugiata non era semplicemente un incidente di guerra o una tragedia naturale, ma una componente strutturale del mondo moderno. Dal XIX secolo, il razzismo e l’imperialismo avevano reso il trasferimento di popolazione e l’espulsione violenta una possibilità onnipresente della geopolitica. Cosa direbbe Arendt riguardo all’eterno conflitto tra Israele e Hamas? Arendt non ha sostenuto l’idea di uno stato ebraico in Palestina e si è opposta allo sfollamento forzato dei palestinesi come prezzo da pagare per la sicurezza dello Stato d’Israele. Diffidava delle masse e dei nazionalismi ed era contraria alla creazione dello Stato di Israele.
Hannah Arendt e il sionismo, una storia di contraddizioni
“Gli Ebrei, se lo vogliono, avranno il loro Stato. Dobbiamo una buona volta vivere come uomini liberi sulla nostra zolla e morire tranquillamente nella nostra propria patria”. (Theodor Herzl)
Il 23 giugno 1963, Gershom Scholem, il grande studioso ebreo della Kabbalah, scrisse da Gerusalemme una lettera ad Hannah Arendt, rimproverandola di non avere “amore per il popolo ebraico”. Arendt così gli rispose, il 24 luglio dello stesso anno, da New York: “Hai perfettamente ragione – non sono animata da alcun amore di questo genere, e ciò per due ragioni: nella mia vita non ho mai ‘amato’ nessun popolo o collettività. In secondo luogo, questo ‘amore per gli ebrei’ mi sembrerebbe, essendo io stessa ebrea, qualcosa di piuttosto sospetto”.
Perché mai un ebreo dovrebbe nutrire “amore per gli ebrei”? L’affermazione di Arendt ci riconduce allo sviluppo del suo pensiero intorno alla storia del popolo ebraico e, in particolare, a come ella aveva vissuto – o meglio, non vissuto – quella storia durante la sua vita personale e di studiosa. La conclusione della lettera a Scholem è rivelatrice: “Ebbene, è in questo senso che io non ‘amo’ gli ebrei, né ‘credo’ in loro; appartengo semplicemente a loro”. Questo spiega la sua netta contrarietà alla creazione di uno stato ebraico né in Palestina, né in nessun altro luogo.
La vita stessa di Arendt all’interno del mondo intellettuale tedesco costituisce un elemento fondamentale per giudicare la sua concezione dell’ebraismo. Era un’ebrea completamente assimilata nel contesto storico e sociale della Germania al punto da aver abbandonato – o forse anche rifiutato – il suo essere ebrea.
Il 24 marzo del 1930 Arendt aveva scritto una lettera inequivocabile a Karl Jaspers a proposito del problema dell’adesione personale all’ebraicità: “Sul terreno dell’ebraicità può crescere una determinata possibilità di esistenza, da me indicata come adesione al destino. Questa adesione al destino cresce proprio sul fondamento di un’assenza di terreno, e trova compimento, appunto, soltanto nel distacco dall’ebraismo”. Anche quest’affermazione non può che essere considerata autobiografica, come gli eventi successivi avrebbero ampiamente dimostrato. La sua “fuga” verso gli Stati Uniti, oltre che essere dettata dal problema della sopravvivenza, segnò il momento culminante del suo distacco dall’ebraismo in quanto condizione esistenziale di un intero popolo.
Quel popolo, ora – siamo negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra – marciava dietro le bandiere del sionismo. Su questo tema, la posizione di Arendt è nota, per quanto assai contraddittoria. In una lettera a Jaspers del 30 giugno 1947 scriveva: “Vedi, per noi e per molti altri, oggi è divenuto del tutto ovvio che, se noi sfogliamo i giornali, veniamo a sapere soltanto ora che cosa succede in Palestina – benché io non abbia alcuna intenzione di andare mai laggiù, e benché io sia quasi fermamente convinta che là tutto andrà storto”. Ma, appena poco più di due mesi dopo, il 4 settembre, sempre in una lettera a Jaspers, ammetteva: “I sionisti sono gli unici che possano godere di seria considerazione. Ciò che si è fatto in Palestina è straordinario: non soltanto colonizzazione, ma serio tentativo di fondare un nuovo ordine sociale”.
E più avanti, nella stessa lettera: “In sostanza, la novità principale è che larghi settori del popolo, e non solo coloro che vivono in Palestina, non solo i sionisti, rinunciano a considerare la sopravvivenza come lo scopo di tutta la propria vita, e sono pronti a morire. È un fatto totalmente nuovo”. Arendt, scrivendo di “un nuovo ordine sociale” fondato dai sionisti in Palestina, non poteva che alludere al fatto che il nazionalismo ebraico -il sionismo- aveva raggiunto il suo scopo: la creazione di uno stato ebraico in Palestina, per quanto ella aborrisse il termine “nazionalismo”, che giudicava appartenente a un’altra epoca storica. Di conseguenza, “l’edificio crollerà – aveva scritto nel febbraio 1943 – se le nostre menti e le nostre idee non si adatteranno a nuovi fatti e a nuovi sviluppi”, senza accennare a quali fatti e sviluppi avrebbero potuto soppiantare il nazionalismo.
Applicava al sionismo le categorie d’analisi che avrebbe poi utilizzato per connotare i movimenti dei regimi totalitari, Eppure, nel 1953, in uno dei suoi quaderni e diari, il quattordicesimo, Arendt aveva spiegato il significato di “sradicamento”: “Sradicamento significa vivere in superficie, e questo implica essere un parassita e vivere la ‘superficialità’. La dimensione della profondità si crea piantando radici, nel senso della riconciliazione”.
Negli anni Cinquanta, Arendt tornerà più volte sul tema dello stato ebraico. Lo farà in modo altalenante tra una debole accettazione e un netto rifiuto, anche se il suo giudizio resterà sempre sostanzialmente negativo. È in corso un conflitto storico – ormai da 76 anni – tra lo Stato di Israele, la Palestina e molti dei loro vicini. Arendt, che sosteneva uno Stato binazionale di Palestina, lo aveva previsto. Hamas non è la Palestina, e la Arendt l’avrebbe riconosciuta e condannata come organizzazione terroristica, allo stesso modo in cui avrebbe riconosciuto e condannato l’attuale sionismo di destra come genocida e come corruzione morale e cinica dell’attuale governo.
In uno scritto del 1950, Arendt sottolineerà un concetto che, implicitamente o più spesso esplicitamente, aveva espresso più volte negli anni precedenti: “L’esperimento palestinese è stato frequentemente definito come artificiale”; e più avanti: “Nessuna necessità economica costrinse gli ebrei ad andare in Palestina negli anni decisivi nei quali l’immigrazione in America era la naturale fuga dalla miseria e dalla persecuzione”. Un’affermazione che negava legittimità al movimento sionista e al suo progetto nazionale.
Ecco perché, andando controcorrente rispetto al trionfalismo che accolse la fondazione dello Stato di Israele, Arendt lamentò che “come praticamente tutti gli altri eventi del XX secolo, la questione ebraica non fece altro che produrre una nuova categoria di rifugiati, gli arabi, aumentando così il numero di apolidi e di senza diritti di 700.000-800.000 persone”.
Con parole che ora riflettono l’estrema violenza israeliana a Gaza, celebrata dalla destra politica, per Arendt, il crescente numero di persone apolidi non richiede una “soluzione” ma una nuova politica. Arendt voleva un riconoscimento globale del “diritto ad avere diritti” di tutti gli esseri umani, in modo che potessero essere giudicati in base alle loro azioni e opinioni.
Circa la sua esperienza di apolidia, Arendt afferma che quando le persone possono essere private di appartenenza e visibilità così facilmente, ciò è un presagio di un futuro in cui interi gruppi nazionali possono essere messi fuorilegge, collegando queste considerazioni alle attuali guerre in Ucraina e Palestina, e, per menzionarne alcuni, i Rohingya originari della Birmania Occidentale, gli Uiguri in Cina, i Kurdi che nel conflitto con la Turchia, sono sotto attacco da anni in Siria e in Iraq.
Forse niente di quello cui stiamo assistendo l’avrebbe sorpresa, ma sarebbe stata profondamente rattristata, come dovremmo essere tutti. “Possiamo aprire i ‘buchi dell’oblio’ finché ci saranno dei sopravvissuti e finché continueremo a cercare un dialogo“. Hannah Arendt voleva che il pensiero politico fosse urgente e impegnato, per riconciliarci con le incertezze della realtà e aiutarci ad affrontare la nostra comune condizione umana. Ecco una filosofia per i nostri tempi, illuminata, provocatoria e creativa.
FINE
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Bibliografia:
Nadežda Mandel’štam “Le mie memorie”, Milano, Aldo Garzanti Editore, 1972
Lyndsey Stonebridge, We Are Free to Change the World: Hannah Arendt’s Lessons in Love and Disobedience. Jonathan Cape, 2024
Hannah Arendt, The Origins of Totalitarianism, Houghton Mifflin, 1973
Hannah Arendt, Noi rifugiati, Einaudi, 2022 Hannah Arendt, Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil (Penguin Modern Classics), 2022
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