L’ermeneutica di Gadamer
Hans Georg Gadamer riconosce che le sue prospettive etico filosofiche si rifanno alla filosofia pratica di Aristotele, che stabilisce una netta differenza tra la conoscenza pratica di chi sceglie liberamente e la capacità appresa dell’artigiano, che viene definita come techné.
Hans Georg Gadamer
La filosofia pratica si occupa della condotta di vita del libero cittadino nella città, basata sulla conoscenza e sulla propria situazione orientata alla virtù, al proprio bene e a quello della comunità. L’ambito della prassi non è l’ambito del desiderio, ma l’ambito del volere, della scelta dei fini per la vita dell’uomo e della società, della scelta dei mezzi adeguati per raggiungere i propri fini e scopi.
Gadamer introduce la categoria di applicazione, una categoria dialettica che stabilisce la mediazione tra i fini generali e le situazioni concrete della vita umana, concependo la razionalità pratica non come razionalità astratta, ma come un processo dialettico in cui la stessa considerazione degli scopi generali è determinata dalle situazioni concrete della pratica umana. La situazione concreta determina l’elaborazione delle finalità proprie della prassi umana, dialetticamente coinvolta nel processo riflessivo pratico.
Di fronte all’emancipazione proclamata da Habermas e dalla Teoria critica, Gadamer esplicita un criterio importante: “stabilire una mediazione tra le anticipazioni di ciò che è desiderabile e le possibilità di ciò che è realizzabile, tra il desiderio semplice e il volere reale, imponendo cioè la forma delle anticipazioni della materia del reale”. Questa mediazione tra ciò che è desiderabile e ciò che è realizzabile si concretizza solo attraverso la mediazione di un’operazione critica.
Questa operazione critica è essenziale per articolare l’immaginazione e le possibilità reali, il desiderio e il volere, insomma per rendere possibile un pensiero che incorpori la dimensione critica e la forza del giudizio valutativo. L’unica vera critica è quella che ci permette di intraprendere e realizzare questa mediazione, quella “concreta”, quella che si decide in un rapporto intrinseco con la pratica.
Mentre la riflessione emancipatrice di Habermas si fonda su un “accordo controfattuale”, che contiene la pretesa di sapere in anticipo, prima del confronto con la pratica, cosa è giusto e cosa no, per Gadamer “il senso della pratica ermeneutica non consiste nel partire da tale accordo controfattuale, ma nel renderlo possibile e nel provocarlo, il che non significa altro che convincere attraverso la mediazione di una critica concreta”, in cui tutti hanno il diritto di sapere cosa è giusto per la comunità.
Nel campo della politica e della strutturazione della vita sociale, alla formazione della volontà e della convinzione si arriva attraverso il dialogo, che per l’ermeneutica, appare il più appropriato per definire questa dinamica e questa dialettica della ragion pratica. Gadamer sostituisce la riflessione emancipatoria promossa dalla teoria critica con il metodo dialogico: “Se utilizzato secondo necessità, lo schema del dialogo conserva la sua fecondità: nello scambio di forze come nella competizione di opinioni si costruisce una comunità che supera l’individuo e il gruppo a cui appartiene”.
Gadamer non differenzia la dinamica reale ed effettiva della ragion pratica dalle sue esigenze normative. Il “fatto della ragione” è insomma quel fatto dell’esperienza e della riflessione, che supera la ragione: non possiamo spiegare perché, ogni volta che rivendichiamo la verità, dipendiamo dall’“idea di verità”, al punto che siamo costretti a proporre “idealmente” la “situazione verbale” in cui tale esigenza troverebbe soddisfazione.
Per Habermas è questo il vero punto critico: il fatto che, nell’assumere la nostra pretesa di verità, noi distinguiamo tra ciò che è “de jure” e ciò che è “di fatto”. Questa differenza costituisce un momento critico, in quanto l’ambito della pratica non può essere abbandonato al “decisionismo” individuale o affidato alle buone intenzioni di una rinnovata filosofia pratica aristotelica.
La teoria critica di Habermas
Il percorso che intraprende la teoria critica consiste nello sviluppare una teoria dell’azione comunicativa (Habermas) o una pragmatica semantico-trascendentale (Apel), che sfugge da un lato alle aporie di una filosofia del soggetto e al primato del logocentrismo e dall’altro al “decisionismo” etico.
Jürgen Habermas
Questa teoria stabilisce una relazione interna tra razionalità e prassi. Approfondisce i presupposti di razionalità che sono alla base della pratica comunicativa quotidiana e, grazie al concetto di razionalità comunicativa, spiega il contenuto normativo dell’azione orientata all’accordo. L’azione comunicativa fornisce il criterio di validità delle norme morali, proprio per le condizioni di possibilità che presuppone.
La comunicazione intersoggettiva, dove si costituisce il consenso sociale, ha una propria razionalità che è quella dell’attività orientata all’inter-comprensione. Questa inter-comprensione ha i suoi presupposti, le sue condizioni di possibilità, la prospettiva di una situazione ideale di parola, di comunicazione senza barriere, da cui deriverebbe il consenso puramente razionale. In questo senso tutta l’attività comunicativa linguistica dipende da una prospettiva di verità che troverebbe il suo quadro procedurale di riferimento nel modello della comunicazione senza barriere.
Dal momento in cui i soggetti capaci di linguaggio e di azione vogliono prendere una decisione riguardo a pretese di validità delle norme relative alla sfera sociale in discussione, sono costretti a ricorrere a fondamenti che si spiegano attraverso il concetto di razionalità comunicativa, razionalità che è sempre inclusa nelle forme di interazione esistenti nel mondo vissuto.
Poiché nella razionalità comunicativa è inscritta l’esigenza di una comunicazione senza barriere né limiti, la razionalità comunicativa stessa fornisce criteri decisivi per una critica delle relazioni fattuali, che dovrebbero essere relazioni di accordo. Nelle condizioni stesse dell’azione orientata all’accordo è inscritto un momento di condizionalità, che mette in discussione la validità sociale di convinzioni e consuetudini.
Una situazione ideale di dialogo offre prospettive critiche e utopistiche per la configurazione di una società libera dal dominio, ma è opportuno ricordare che questa idea contiene solo un’idea formale, che da sola non può offrire una configurazione di contenuti concreti, un’articolazione storica di forme di società emancipate.
Non si tratta, né di una concezione razionale “sostanziale” del mondo, né di un’utopia astratta, ma piuttosto di un’idea critica e regolativa. Come sottolinea Habermas: “Da questi fondamenti possiamo estrarre solo alcune condizioni formali di una vita razionale – per esempio, la coscienza morale universalista, il diritto universalista, un’identità collettiva raggiunta riflessivamente, ecc. Non esiste un valore limite ideale che possa essere descritto in termini di strutture formali; tutt’al più si tratta solo del successo o del fallimento dello sforzo per uno stile di vita in cui appaia, come realtà sperimentabile, un’identità senza violenza degli individui che esprima una reciprocità senza violenza tra gli individui”.
Tuttavia, solo una comprensione ermeneutica può e deve essere articolata criticamente e guidata da una preoccupazione pro-emancipazione. Solo così potremo “superare” il dilemma tra un progetto di libertà e la riattivazione delle nostre eredità etiche. Paul Ricoeur è stato un fermo difensore dell’unione costitutiva di questi due momenti: la vita etica è una transazione perpetua tra il progetto di libertà e la sua situazione etica tracciata dal mondo delle istituzioni. Tuttavia, un’ermeneutica che si separasse dall’idea di emancipazione, non sarebbe altro che un’ermeneutica delle tradizioni e in questo senso una forma di restaurazione filosofica. Il rapporto tra il progetto della “libertà e la memoria delle sue passate conquiste costituiscono un circolo vizioso solo per la comprensione analitica, non per la ragione pratica”.
L’interesse per l’emancipazione sarebbe infatti astratto e vuoto, se non fosse iscritto nella concretezza della storia, nel terreno dell’esperienza comunicativa stessa. “Il compito dell’ermeneutica delle tradizioni consiste nel ricordare al critico delle ideologie che è proprio sullo sfondo della reinterpretazione creativa delle eredità culturali che l’uomo può progettare la sua emancipazione e adottare una comunicazione senza barriere e senza limiti”. Da questo punto di vista, la filosofia è un’autoriflessione radicale e critica, che, animata dal suo interesse emancipatore, assume un ruolo storico di difensore della razionalità sia nel campo cognitivo- strumentale, come nel campo pratico-politico ed espressivo-estetico, un pensiero storico e finito, ma allo stesso tempo un’alternativa critica. In questa filosofia teorica e pratica, la prospettiva si iscrive sotto il nome di ermeneutica critica emancipatrice.
Ermeneutica e teoria critica: ulteriore riflessione
Senza abolire le differenze esistenti tra ermeneutica e teoria critica, la riflessione filosofica deve essere in grado di delucidare le intercomunicazioni, i punti di convergenza e le possibilità di mediazione che possono esistere tra le due prospettive. Si aprono in questo modo nuovi spazi e prospettive critiche per un pensiero capace di sfuggire alla fissazione monologica o alla degenerazione “ideologica”. Non esiste un’antinomia completa tra una concezione ermeneutica e una teoria critica. Per essere fedele a se stesso, il pensiero deve articolarsi secondo queste due prospettive.
(Continua)
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La prima parte al link: https://www.internationalwebpost.org/etica-ed-emancinazione-ermeneutica-e-teoria-critica-i-parte/
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