L’ethos democratico, l’ethos sociale
Quanto più la logica del riconoscimento è implementata nella vita sociale, tanto più i soggetti saranno nelle condizioni di godere di una vita pienamente realizzata. In particolare, la dimensione giuridica e quella dell’ethos della solidarietà comunitaria hanno un alto potenziale di universalità e progressività e possono, in chiave etico-sociale, diventare le condizioni di un nuovo universalismo storicamente fondato.
L’ethos democratico mira all’espansione dell’autonomia e dell’eguaglianza nel riconoscimento delle singolarità e delle differenze. Si tratta, dunque – nell’epoca del multiculturalismo – di pensare a un’etica che abbia nel codice del riconoscimento il suo riferimento morale profondo, al di là di singole idee di vita buona e di specifiche forme di vita. Sul piano sociale i valori comuni, che ogni società incorpora e prevede, per essere compatibili con una simile visione dell’etica, non possono che presentarsi come aperti al pluralismo e alla tolleranza, in modo tale che i fini comuni non sopprimano mai le possibilità di autorealizzazione del soggetto e assicurino l’inclusione di ogni suo membro.
Il percorso della “Lotta per il riconoscimento”: l’ontologia sociale di Honneth
Le analisi filosofico-sociali presenti in “Lotta per il riconoscimento”, ovvero l’idea che le società progrediscano attraverso lotte per il riconoscimento che si susseguono nella storia, che esistano sfere del riconoscimento e che il misconoscimento sia la forza originaria dei conflitti sociali sono già presenti in alcuni articoli che Honneth pubblica tra il 1979 e il 1989 e che attestano il faticoso percorso verso la formulazione di un’ontologia sociale imperniata sul concetto di riconoscimento. Queste analisi, in contiguità con temi più spiccatamente marxisti relativi alla cultura di classe e ai conflitti sociali, rivelano la fatica del rapporto/confronto con Habermas, di cui Honneth divenne assistente nel 1983.
Honneth e la sociologia empirica
L’idea che esista un potenziale da sviluppare in ogni sfera del riconoscimento ha una genesi lontana; già in un articolo apparso nel ’79 a Berlino, dal titolo La “biografia latente” sui giovani della classe lavoratrice, Honneth intendeva esaminare il problema dell’identità collettiva della classe lavoratrice, affermando che “i contenuti di critica sociale, iscritti nel modello della cultura di classe che contribuisce a costituire la biografia dei singoli lavoratori, rimangono latenti fintanto che i soggetti d’azione, in maniera autoriflessiva, non li assumono come parametri della loro azione”.
Partendo dall’idea che la storia degli individui non sia plasmata unicamente da fattori inerenti la personalità e le strutture sociali, ma da modelli tramandati attraverso la cultura di classe, Honneth chiama “biografia latente” il processo in cui alcune forme di autoaffermazione vengono trasmesse attraverso la cultura di classe: infatti, la vita culturale di una specifica classe costituisce per Honneth una “memoria collettiva”, che condiziona la biografia individuale.
Secondo Honneth, è necessario tenere conto della resistenza e della volontà di progettare un futuro migliore da parte delle classi sociali, piuttosto che limitarsi a considerare le azioni collettive di lotta come rottura del contratto sociale che si era originariamente esperito come giusto. In altre parole, lottare per mantenere il contratto sociale, che si esplicita in una serie di accordi reciproci, basato su un consenso fragile e sempre aperto alla possibilità di rielaborazione, implica il conflitto sulla legittimità del consenso conseguito.
In “Lotta per il riconoscimento” Honneth tenta di formulare un concetto formale di eticità attraverso l’’attenzione solidale’ e l’approfondimento della logica morale dei conflitti sociali. I sentimenti morali come la vergogna, il senso di colpa, l’indignazione e il risentimento fanno implicitamente riferimento ad aspettative normative considerate giuste dal soggetto d’azione. Serve, perciò, un’ermeneutica che possa portare alla luce il contenuto cognitivo e morale dei sentimenti d’ingiustizia subìta.
Richiamandosi ad Habermas, Honneth afferma che le nostre rappresentazioni morali riguardano soprattutto l’inviolabilità della dignità umana in un duplice senso: “mettere in luce l’intangibilità degli individui richiedendo uguale considerazione per la dignità di ciascuno e proteggere, nella stessa misura, anche le relazioni intersoggettive di riconoscimento reciproco grazie alle quali gli individui si mantengono come appartenenti ad una comunità”.
Honneth e la rivalutazione del concetto di lavoro in Marx
Se in “Lotta per il riconoscimento”, nell’ambito della filosofia sociale, la teoria di Marx costituisce uno degli esempi più significativi di una corrente di pensiero che collega i conflitti sociali a esigenze di riconoscimento, tuttavia la tradizione marxista non l’ha seriamente preso in considerazione, rimanendo così vittima di quel “pregiudizio” che spiega tutte le mancate rivoluzioni del proletariato come incomprensione dei suoi interessi razionali.
La tesi di Honneth è che Marx non sia sempre riuscito a comprendere il processo lavorativo direttamente come un processo di formazione in grado di liberare motivi pratico-morali, ma, al contrario, “per attribuire anche nei suoi scritti economici un carattere rivoluzionario al processo lavorativo, egli passa ad un modello argomentativo strumentale, nel quale al processo di produzione nel capitalismo rimane unicamente il ruolo di strumento di organizzazione e disciplinamento del proletariato”.
Secondo Honneth, all’interno della storia del marxismo c’è stata una linea teorica che cerca di risolvere la questione del rapporto tra lavoro ed emancipazione attraverso argomentazioni di filosofia pratica. Ma paradossalmente questa linea teorica non ha fatto altro che rimuovere ogni contenuto emancipatorio dall’atto del lavorare: per Honneth, due esempi sono la filosofia fenomenologica di Max Scheler e il pensiero di Hannah Arendt in Vita Activa.
All’interno di un mutamento di prospettiva sul ruolo sociale del lavoro, Honneth delinea il contesto teorico in cui il marxismo critico cerca di dare risposta alla questione lasciata insoluta da Marx, ovvero, quella di “adattare la teoria dell’azione su cui si basa la teoria dell’emancipazione marxiana alla realtà del lavoro industriale capitalistico, la cui forma è venuta, nel frattempo, facendosi più chiara”.
Per Honneth, due sono le principali strategie messe in atto dal marxismo critico per proporre una soluzione a tale questione: la prima è rappresentata da pensatori come Lukács, Marcuse e Sartre che “trasferiscono ad una sorta di azione collettiva concepita come lavoro”, il contenuto emancipatorio che Marx attribuiva al lavoro stesso; la seconda è rappresentata da Adorno e Horkheimer, per cui “il lavoro perde lo status di prassi emancipatoria” per diventare “il fondamento pratico del dominio”.
Tuttavia, in “La logica dell’emancipazione” del 1989, assistiamo ad un’ulteriore evoluzione del rapporto tra Honneth e il pensiero marxista, dove egli sostiene che Marx sia riuscito a sviluppare contemporaneamente una teoria dell’emancipazione e un’analisi della società e ciò proprio grazie al “concetto di lavoro”, in cui non sarebbero state rimosse tutte le caratteristiche che la tradizione marxista attribuiva alla costruzione della soggettività. Tale concetto avrebbe permesso a Marx di trattare come un unico processo la formazione dell’ordine sociale e l’emancipazione.
È l’aver considerato il lavoro come un’attività creatrice, come un evento formativo e, dunque, come processo di autorealizzazione, ciò che consente a Marx di parlare di emancipazione legata all’attività lavorativa: così facendo, egli “ottiene la possibilità di concepire l’azione strumentale anche come evento espressivo dotato di unicità”. L’analisi della società di Marx si fonda sull’idea che il conflitto di classe, espressione della relazione conflittuale tra capitale e lavoro, sia anche strumento di autorealizzazione.
Se la teoria del capitalismo può rappresentare contemporaneamente la diagnosi storico-filosofica di un rapporto di alienazione e la prognosi sperimentale di un rovesciamento rivoluzionario, questa prospettiva permette a Marx di considerare il processo storico come intriso di una razionalità che si esplica come conflitto tra gruppi. Quest’ultima considerazione è quella che più interessa Honneth, sistematicamente descritta in “Lotta per il riconoscimento”, dove si chiede: “in che modo il concetto di emancipazione e l’analisi del capitalismo possono essere nuovamente riuniti in un’unica teoria sociale, nel momento in cui il paradigma del lavoro marxiano non è più in grado di servire da legame categoriale tra i due?”
Dato che per la contemporaneità il pensiero di Marx non può più “rappresentare un insieme definito di premesse sociologiche”, conservando la sua validità in quanto “prospettiva storico- filosofica”, Honneth considera lo sviluppo sociale non solo derivato dalla logica del lavoro, ma da quella del riconoscimento “sotto le condizioni economiche imposte dal capitalismo”.
Il processo di riconoscimento ci porta – nella formulazione di Honneth – a tre forme di critica riparatrice del marxismo: il marxismo in chiave di teoria dei giochi, il marxismo teorico-culturale, il marxismo in chiave di teoria del potere, nel tentativo di legare insieme teoria dell’emancipazione e analisi della società. Questo problema rimane aperto, poiché “ognuna di esse pone come concetto di base della propria analisi della società, il tipo di prassi caratteristico della sfera d’azione che sceglie di privilegiare”, perdendo del tutto la possibilità “di soddisfare, al contempo, i requisiti di una teoria dell’emancipazione e quelli di un’analisi della società”. (Honneth 2011)
A partire da tali riflessioni sulla filosofia marxista, di fronte all’esistenza di una moralità storicamente effettiva e all’identificazione delle condizioni sociali che comportano una lesione del rispetto di sé, secondo Honneth, tale prospettiva intersoggettiva rimane celata nell’opera di Marx poiché egli “restringe in senso produttivistico il suo concetto di identità umana, considerando presupposto del rispetto di sé unicamente l’esperienza di un’attività lavorativa unitaria”.
Se infatti occorre riconoscere a Marx di aver per primo considerato il lavoro sociale come un medium del riconoscimento e, corrispondentemente, di considerarlo come una dimensione del possibile misconoscimento, tuttavia la sua visione estetico-produttivistica del modello di conflitto ha impedito “di localizzare adeguatamente l’alienazione diagnosticata, cioè di situarla nel tessuto relazionale del riconoscimento intersoggettivo, in modo tale da metterne in luce l’importanza morale nelle lotte sociali del suo tempo”.
In “Critica del potere” Honneth traccia una dicotomia paradigmatica tra il modello teorico marxista basato sul lavoro sociale, la lotta di classe e l’azione sociale e quello incentrato sulla dialettica sovraindividuale e sistemica tra le forme produttive e i rapporti di produzione. Se la lotta di classe non è più dovuta alla distruzione delle condizioni del riconoscimento reciproco, ma alla concorrenza degli interessi economici, la lotta si rivolge esclusivamente alle sole istanze dall’organizzazione del lavoro sociale e non riguarda più le pretese morali lese.
Secondo Honneth, l’idea dell’esperienza morale cui è legata la frustrazione di pretese d’identità è ormai scomparsa dalla filosofia marxiana: Marx non è riuscito ad ancorare le finalità normative del suo progetto a quel processo sociale a cui si è costantemente riferito con la categoria della lotta di classe.
(Continua)