Honneth e il paradigma dell’intesa habermasiana in “Lotta per il riconoscimento”
Honneth sostiene che Habermas in “Lavoro ed interazione” ha tratto le conseguenze più estreme dalla riduzione del concetto di lavoro operata dalla filosofia del ventesimo secolo: infatti, Habermas ha attribuito all’intesa intersoggettiva il ruolo che aveva il lavoro sociale in Marx, accantonando concetti come quelli di resistenza ed emancipazione. Questa contrapposizione al modello teorico di Marx era ravvisabile all’interno del pensiero habermasiano già in “Conoscenza ed Interesse”, tuttavia successivamente Habermas abbandonerà la possibilità di formulare una dialettica morale a partire dall’antagonismo di classe.
Honneth opera la sostituzione del paradigma argomentativo-consensuale habermasiano con quello fondato sul riconoscimento e tenta di superare il deficit proprio di una motivazione unicamente teoretico-linguistica della morale. Infatti, l’esperienza dell’ingiustizia morale qui non è più attribuibile alla violazione di regole linguistiche riguardanti la comunicazione, ma a “violazioni di affermazioni di identità acquisite tramite la socializzazione”.
Tale posizione nei confronti del pensiero habermasiano è venuta costruendosi nel tempo: testimonianza di questo faticoso confronto sono alcuni contributi honnethiani come “Lavoro e azione strumentale”, “Coscienza morale e dominio di classe”, nonché “Etica del discorso e il concetto implicito di giustizia”, che riguardano i conflitti normativi legati alla struttura di classe nelle società del tardo capitalismo.
In “Coscienza morale e dominio di classe” scritto nel 1981, sebbene sotto forma di riflessioni non sostanziate dalla ricerca empirica e tracciate a scopo illustrativo, Honneth sostiene che, dopo la fine dell’illusione nella rivoluzione marxista e il fallimento del tentativo della “Teoria critica” di mediare tra norme eticamente fondate e moralità storicamente effettiva, la teoria habermasiana, nonostante si sforzi di parlare ancora in un’era capitalistica di una coscienza morale, tuttavia esclude importanti ambiti della lotta morale, a meno che non ci si riferisca alle opinioni pubbliche politicamente egemoni.
Nel suo ragionamento sulla filosofia habermasiana, Honneth costruisce la sua tesi attraverso tre passaggi: in primo luogo, cerca di dimostrare come Habermas perda di vista alcune forme di moralità specifiche di alcune classi sociali e, dunque, anche la possibilità di una loro formulazione; in secondo luogo, tenta di illustrare come i sentimenti di ingiustizia trovino espressione anche indipendentemente dal grado del controllo sociale; infine, perviene alla conclusione che dietro l’apparente pacificazione di lotte pratico-morali in età capitalistica si celano in realtà conflitti che hanno bisogno di essere portati alla luce.
Per argomentare il primo punto, Honneth sostiene che “Habermas deve implicitamente ignorare tutti quei potenziali di azione morale che potrebbero non aver raggiunto il livello di giudizi di valore articolati, ma che sono nondimeno presenti, in atti di protesta collettiva culturalmente codificati o persino in semplice, silenziosa ‘disapprovazione morale’”. L’idea di Honneth è che parte delle rivendicazioni morali presenti in una società, soprattutto quelle riguardanti le classi dominate, non siano espresse in positivo, ma in negativo, sotto forma di coscienza dell’ingiustizia e che siano non esprimibili attraverso idee collettive di giustizia.
Tale “coscienza dell’ingiustizia” deriva esplicitamente delle analisi di storia sociale delle classi. La manifestazione dell’ingiustizia subita, caratterizzata dall’assenza di una struttura formale e dall’elaborazione di convinzioni normative, dipende anche dall’organizzazione dei gruppi sociali e dal controllo sociale imposto a tali gruppi. Il controllo sociale attuato dai meccanismi di dominio determina il modo in cui i sentimenti d’ingiustizia vengono espressi: “l’obiettivo comune a questi processi di controllo della coscienza morale è |di bloccare sul nascere la manifestazione di sentimenti di ingiustizia sociale, in modo che il consenso su cui si regge il dominio sociale non venga intaccato”.
Per Honneth, due sono i meccanismi di controllo sociale più diffusi: i “processi di esclusione culturale” e i “processi di individualizzazione istituzionale”. Nell’argomentazione honnethiana, nelle forme nascoste di disapprovazione sociale e nei conflitti legati alla struttura di classe, è presente una lotta per il riconoscimento sociale che contiene un potenziale che deve essere utilizzato per costruire rivendicazioni sociali universalizzabili: ciò è quello che “un’analisi sociale in senso marxista dovrebbe porsi”.
Il problema non è il fatto che nella nostra società contemporanea non esista più la lotta di classe o che il conflitto di classe sia bloccato, ma va inteso nel senso che la “coscienza dell’ingiustizia” da parte delle classi dominate viene considerata come un sensore altamente sensibile e non come la rappresentazione di un ordine morale generale. Il problema della lotta di classe si è spostato sul terreno di un’asimmetrica distribuzione di beni materiali che determina un’asimmetria nella opportunità di vita culturale e psicologica: così è esclusa la possibilità del rispetto di sé e di poter essere definiti socialmente sulla base della dignità umana.
Sull’ Etica del discorso e sul concetto implicito di giustizia” di Honneth
Rispetto all’ “Etica del discorso e sul concetto implicito di giustizia” scritto da Honneth nel 1986, attraverso la critica all’etica del discorso habermasiana, Honneth mette in luce alcune implicazioni che si riveleranno fondamentali per la fondazione della sua proposta di un’etica del conflitto e, di cui neanche Habermas ha preso interamente coscienza, che fa – secondo Hanneth – un uso poco convinto del contenuto normativo dei presupposti dell’argomentazione che pone a fondamento della sua procedura discorsiva, verificando nel contempo le precondizioni sociali di tale procedura.
Secondo Honneth, l’incongruenza in cui cade Habermas per “evitare di ravvisare nell’etica comunicativa qualcosa di più che una semplice fondazione del principio di universalizzazione”, mette in luce come l’etica del discorso rinvii necessariamente ”ad un concetto di giustizia sostantiva ampliato in senso di teoria dell’intersoggettività”. Infatti, prosegue Honneth, l’etica del discorso, “in quanto considera il principio di universalizzazione come il dispositivo normativo che regola i discorsi da condurre fattualmente” non può sfuggire a tali implicazioni sostanziali e rimanda ad un concetto di giustizia sociale in senso intersoggettivo.
Per Honneth, perché il dialogo possa realmente aver luogo, rispetto a tutte le altre etiche procedurali, l’etica del discorso non può che superare il puro “formalismo etico in direzione di un concetto di giustizia sostantivo, che determini le forme organizzative della società in grado di assicurare una partecipazione egualitaria a processi discorsivi liberi da dominio”. L’etica discorsiva fa affidamento su soggetti morali dell’azione che, attraverso un percorso di reciproco riconoscimento, pervengono al grado di autonomia individuale che consente loro di prendere liberamente posizione su norme controverse dal punto di vista morale.
L’etica del discorso intende il dialogo normativo sull’universalizzazione delle norme come una procedura in cui giunge ad esprimersi una comunità di comunicazione alla quale tutti i partecipanti alla discussione, in quanto soggetti socializzati, già appartengono; il modello attraverso cui viene pensato il soggetto morale non è, quindi, quello della persona atomizzata, tesa al calcolo del suo interesse, bensì quello dell’individuo che raggiunge l’autonomia attraverso la comunicazione.
Secondo l’interpretazione che Honneth ne dà, l’etica del discorso, ponendo alla base della giustizia sociale il riconoscimento reciproco, presenta una teoria della giustizia non legata alla distribuzione dei beni materiali, ma interessata ad un’equa ripartizione delle dimensioni culturali e simboliche. Un tale concetto di giustizia sociale implicito nell’etica del discorso avrebbe anche un’intenzione normativa: quella di mettere a fuoco quali siano le ingiustizie sociali che non permettono l’accesso ad una libertà uguale per tutti.
Così reinterpretata, “l’etica del discorso” di Honneth in “Critica del potere”, pubblicato nel 1986, rimette l’interazione sociale al centro della propria impostazione filosofica, mentre Habermas preferisce imboccare la via di una giustificazione antropologico-trascendentale della critica sociale, invece che la strada emancipatoria di una lotta tra attori sociali rivali. Il concetto di interazione mediata simbolicamente designa la posizione particolare che l’impostazione habermasiana assume nella tradizione di una teoria critica risalente a Marx; in una svolta stimolata dall’esperienza dell’ermeneutica, Habermas assume le intenzioni delle correnti normative e linguistiche all’interno del pensiero sociologico e, per la prima volta nella storia del marxismo, l’intesa linguistica diventa paradigma del sociale.
Habermas, tuttavia, non è riuscito a portare sino in fondo la costruzione di una teoria critica basata sul conflitto come istanza morale di formazione della società stessa: egli è rimasto troppo legato all’idea diagnostico-temporale di una tecnica autonomizzata e troppo influenzato dalla diagnosi sociologica di un conflitto di classe in via di dissoluzione. In Habermas si sarebbe perso il potenziale teorico dato dalla possibilità di concepire “una comprensione dell’ordine sociale come rapporto comunicativo, mediato istituzionalmente, tra gruppi integrati culturalmente, il quale rapporto, n quando i poteri sociali sono distribuiti asimmetricamente, non può che compiersi attraverso il medium del conflitto sociale”.
Per giusticarne la pretesa emancipatoria, Habermas riconduce la prestazione specifica della critica sociale ad una particolarità della razionalità umana che consiste nella possibilità che hanno gli uomini di una discussione libera dal dominio: Habermas chiama questa capacità della ragione di un processo emancipatorio “movimento della riflessione”, non intendendo un atto monologico del pensiero, ma l’autoriflessione derivante dal dialogo intersoggettivo che permette di liberarsi da illusioni autoprodotte. Ciò costituisce la base emancipatoria della Teoria critica habermasiana e ne diviene anche il criterio morale.
(Continua)