La scorsa settimana è iniziata a Glasgow la Cop26, ovvero la ventiseiesima conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici dove sono chiamati a partecipare tutti i paesi della terra. I leader mondiali attesi in Scozia. sino alla conclusione dei lavori. saranno più di 190 e ad essi si uniranno decine di migliaia di negoziatori, rappresentanti di governo, imprese e cittadini per dodici giorni di negoziati.
Le grandi aziende tech, dopo i recenti impegni per contrastare la disinformazione sull’attuale pandemia ed i relativi vaccini, dovranno far fronte anche ai negazionisti dei cambiamenti climatici. Infatti un rapporto pubblicato proprio durante il Cop26 dal “Real Facebook Oversight Board” (un gruppo di controllo indipendente) e dall’organizzazione no profit ambientale Stop Funding Heat ha analizzato un set di dati di oltre 195 pagine e gruppi di Facebook trovando circa 818.000 post che minimizzano o negano la crisi climatica, che hanno ricevuto un totale di 1,36 milioni di visualizzazioni ogni giorno. Uno studio invece fatto dal CCDH (Center for Counter Digital Hate), un ente che combatte la disinformazione online, ha fatto emergere che il 69% dei contenuti negazionisti è riconducibile a 10 profili “super-inquinatori”.
Questi 10 erano: la pagina Breitbart che un tempo gestita dal consigliere di Trump, Newsmax che fu già citato in giudizio per la diffusione di teorie cospirazioniste sulle elezioni presidenziali Usa del 2020, Western Journal, Townhall Media, Media Research Center, Washington Times, The Federalist Papers che incentivava la disinformazione sul Covid, Daily Wire, Russian state media e Patriot Post. La maggior parte di essi sono post assai banali nel confezionamento e nelle immagini, che decontestualizzano messaggi con lo scopo di fare più visite. Tutto ciò è quindi anche redditizio, in quanto Facebook ha accettato la pubblicazione di oltre 100 pubblicità contenenti dichiarazioni antiscientifiche sul clima, tra cui l’affermazione “i cambiamenti climatici sono una bufala”.
I ricavi di queste pubblicità, calcola lo studio, si aggirerebbero tra i 58mila e i 75mila dollari e i contenuti sono sarebbero stati visualizzati oltre 10 milioni di volte. Gli autori dello studio sopracitato puntano l’indice anche contro Facebook che dovrebbe rifiutare o etichettarli come fuorvianti questo tipo di contenuti. Il social però nega l’attendibilità dei risultati di questa ricerca dicendo che la metodologia usata è imperfetta e che la piattaforma si impegna a combattere la disinformazione sul clima. Infine, una soluzione molto semplice che potrebbe adottare il social potrebbe essere quella di inserire sotto i post che parlano di cambiamento climatico un link che rimanda al sito del ministero dell’ambiente, similmente a quanto già fatto per il Covid.