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Fallujah: il destino dei reduci

Aprile 2004, le truppe statunitensi stanno combattendo da mesi in Iraq pagando il prezzo del conflitto con il sangue e il sacrificio dei propri soldati. La guerra sta andando piuttosto bene, almeno dal punto di vista strettamente militare, eppure c’è una roccaforte nemica che non è ancora stata definitivamente espugnata: la città di Fallujah. All’epoca dei fatti, Fallujah doveva essere quanto di più simile esistesse all’inferno in terra: nel giro di pochi chilometri erano radunati non solo gli ultimi soldati dell’esercito iracheno (o di ciò che ne rimaneva) ma soprattutto tutti i miliziani jihadisti fedeli ad Al Qaeda, al Baath e a qualunque associazione insurrezionalista legata al fondamentalismo islamico. In altre parole, Fallujah era il covo di chiunque avesse come unico scopo nella vita uccidere il maggior numero possibile di truppe nemiche.

Ma non è tutto, perché nei magazzini e perfino negli appartamenti della città vi era una serie non quantificabile di bombe e ordigni esplosivi, il che rendeva il territorio in questione il posto ideale per tendere un’imboscata all’esercito americano. Attaccare un luogo simile sarebbe stato una follia; eppure era una follia che il governo statunitense decise di compiere.

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Ad opporsi alla decisione vi era un uomo in particolare: il suo nome era James Mattis, ed era il generale della prima divisione dei Marine, una delle meglio addestrate e più temute. Era un abile stratega (alcuni dicono il migliore al mondo) ed era in grado di ispirare rispetto e fiducia in ognuno dei suoi soldati. Eppure, questo non ci autorizza a pensare che fosse propriamente un uomo dal carattere facile. Gli amici lo chiamavano “mad dog”, cane pazzo, proprio perché era in grado di dire quello che pensava in qualunque momento e di mostrarsi in disaccordo con chiunque… perfino con il proprio Presidente. Tuttavia, la sua indole schietta e perfino un po’ ribelle non gli impediva, quando era il momento, di compiere fino in fondo il proprio dovere, così quando George W. Bush in persona diede l’ordine alla prima divisione di attaccare Fallujah, Mattis obbedì.

Le truppe statunitensi erano numericamente inferiori, ma erano anche meglio armate. Il generale, decise di sfruttare al massimo questo vantaggio attaccando di notte, quando poteva usufruire dei visori notturni e dei coordinamenti telecomandati (tecnologie di cui il nemico non disponeva). La battaglia che ne seguì fu la più sanguinosa dell’intero conflitto: migliaia di uomini tra soldati e civili vennero uccisi, il 60% degli edifici rasi al suolo e nello scontro, inevitabilmente, vennero utilizzati perfino i brutali ordigni al fosforo bianco. Sulle moschee della città vennero posti dei megafoni con i quali i ribelli invitavano in arabo la popolazione civile a prendere le armi e ad unirsi a loro per respingere gli “invasori americani”.

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Alla fine, sia pur a caro prezzo, Mattis e i suoi uomini vinsero la violenta battaglia. Le milizie di Al Qaeda, tuttavia, pur avendo perso la propria roccaforte avevano evidentemente preparato in anticipo un brillante piano di evacuazione della città: la maggior parte di loro riuscì beffardamente a fuggire, portando con sé gran parte degli armamenti presenti a Fallujah.

Erano disorientati e non sapevano dove andare, il che faceva di quel momento il momento giusto per colpirli e per mettere fine una volta per tutte alla piaga del terrorismo islamico. Il commando dei Marine chiese l’ordine di inseguirli, ma ancora una volta l’amministrazione statunitense decise di fermare le operazioni. Le immagini giunte da Fallujahh avevano sconvolto troppo l’opinione pubblica affinché un Presidente che di lì a pochi mesi avrebbe dovuto correre per un secondo mandato potesse autorizzare un’operazione così impopolare.

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Al Qaeda ebbe così il tempo di riorganizzarsi e di tornare a compiere nuovi attentati. Fra i suoi adepti vi era in particolar modo un ragazzino di appena ventun anni originario della Francia. Il suo nome era Peter Cherif anche se da quando si era convertito all’Islam tutti lo chiamano semplicemente “Abu Hamza”. Era cresciuto nella periferia nordorientale di Parigi, ma suo padre aveva origini caraibiche e sua madre, Myriam, era tunisina. Per un ragazzo come Peter la vita non doveva affatto essere stata semplice, specialmente da quando all’età di quattordici anni suo padre era morto per cause naturali, costringendolo a dover ricorrere a una serie di furti e di altri piccoli espedienti per poter sopravvivere. L’estrema povertà, unita alla rabbia sociale, lo aveva portato ad abbracciare l’islam radicale e a partire alla volta del Medioriente prima ancora che il fenomeno dei Foreign Fighters divenisse noto.

A Fallujahh, aveva combattuto con ardore e impegno per difendere la città ma tutto ciò non era servito. Così, pieno di ira e di frustrazione per la sconfitta, decise di continuare a combattere clandestinamente fino a quando gli americani non lo catturarono e non lo rinchiusero ad Abu Ghraib, nel carcere poi divenuto noto per le sevizie e le umiliazioni che gli statunitensi imponevano ai propri prigionieri. In seguito, quando lo scandalo venne alla luce ed Abu Ghraib dovette chiudere, la maggior parte dei suoi prigionieri vennero trasferiti a nella ben meno sorvegliata ma non più decorosa prigione di Badouche, pochi chilometri a nord di Mosul.

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Le carceri irachene all’epoca avevano due caratteristiche fondamentali: incattivivano ulteriormente chiunque vi entrasse e, soprattutto, permettevano ai terroristi d’incontrare i generali un tempo fedeli a Saddam, col risultato che i terroristi radicalizzavano i generali ed i generali insegnavano preziose strategie militari ai terroristi. Fu proprio da questa miscela esplosiva che trasse le proprie origini quello che sarebbe un giorno divenuto l’Isis.

Fuggito rocambolescamente dal carcere, Abu Hamza non esitò a riprendere la propria collaborazione con le agguerrite organizzazioni terroristiche, specialmente ora che esse avevano realizzato il suo sogno: vendicare la sconfitta di Fallujahh. Già, perché gli Stati Uniti, vanificando lo sforzo compiuto durante la seconda guerra del Golfo, avevano deciso di abbandonare il territorio iracheno lasciando di fatto carta bianca all’Isis.

Lo stato islamico occupò Fallujah senza difficoltà: Abu Hamzu era al settimo cielo, ma c’era ancora qualcosa che doveva compiere; un’azione che non colpisse i soldati nemici, ma i loro civili. Un’azione in grado di mirare non solo alla vita umana, ma perfino a quella libertà d’espressione di cui il tanto odiato occidente faceva il cardine della propria civiltà. Fu così che il terrorista tornò in Francia, dove architettò nei minimi dettagli quello che sarebbe stato l’attentato contro la sede di Charlie Hebdo. Gli esecutori materiali della strage vennero assicurati alla giustizia o uccisi, ma Hamzu riuscì a fuggire all’estero divenendo in breve uno degli uomini più ricercati al mondo.

In quanto a Mattis, le sue brillanti imprese militari, unite alla sua crescente popolarità, gli permisero nel 2017 di divenire il nuovo Ministro della difesa statunitense, un onore che non spettava a un membro dell’esercito fin dai tempi di George Marshall.

In un mondo dominato dall’ipocrisia, però, la sua franchezza sembrerebbe averlo ancora una volta penalizzato. Già, perché quando Trump in settimana ha deciso di ritirare le proprie truppe dalla Siria e da gran parte dell’Afghanistan, il generale si è opposto provando in tutti i modi a fargli cambiare idea e a ricordargli che già in passato abbandonare un teatro delicato come il Medioriente troppo in fretta si era rivelato fatale. Quando tuttavia il Presidente non gli ha prestato ascolto, Mattis non ha avuto altra scelta che rassegnare le proprie dimissioni: “Trump ha il diritto di avere al pentagono gente che condivida le sue stesse idee” ha dichiarato nella giornata di venerdì. Il generale si ritirerà dunque a vita privata, anche se ufficialmente dovrà attendere il mese di febbraio prima di poter definitivamente andare in pensione.

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È tuttavia curioso notare che nelle stesse ore in cui “mad dog” rendeva nota la fine della propria avventura politica, dall’altra parte del mondo, a Gibuti, veniva arrestato un uomo con cui si era ferocemente scontrato a Fallujah. Già, perché dopo quattro lunghi anni di ricerche la polizia ha finalmente individuato e arrestato Abu Hamzu, ora in attesa di essere estradato in Francia.

Il 21 dicembre 2018, ha dunque segnato in un certo senso la fine della carriera di due uomini che, pur non potendo essere più diversi tra loro per idee, valori e fede religiosa, si sono tuttavia ritrovati a condividere ben più esperienze di quante non ci si potesse aspettare. Entrambi hanno conosciuto la guerra, l’ostilità e perfino la notorietà, sia pur per ragioni ben differenti. Ed entrambi soprattutto, hanno in qualche modo attraversato i momenti più significativi della propria vita nell’emblematica città di Fallujah. Se questo sia stato un bene o un male, tuttavia, nessuno può dirlo.

Data:

22 Dicembre 2018