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Whatsapp come prova processuale

Fino ad ora non era possibile rendere equivalenti i messaggi cartacei con quelli digitali e soltanto la PEC, posta elettronica certificata, aveva ottenuto l’approvazione come prova da poter portare in tribunale. Per utilizzare un sms o un’email era necessario chiederne la trascrizione ad agenzie specializzate. Quest’ultime avrebbero dovuto appurare la veridicità dell’invio requisendo il dispositivo e sincerandosi che il messaggio fosse stato realmente inviato/ricevuto e che non si trattasse di un falso informatico. La Corte di Cassazione, con la sentenza n 19155/2019 del 17 luglio 2019 ha cambiato profondamente lo scenario giuridico dando pieno valore in giudizio a Whatsapp, agli sms e alle email. Ma non solo, viene anche invertito l’onere della prova. Infatti, da ora in poi non sarà più il mittente a dover dimostrare la non corrispondenza dei messaggi, bensì il destinatario.

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Una scelta che fa un po’ riflettere: se “A” dice di aver inviato un messaggio a “B”, ma ciò non è vero, come può “B” dimostrare di non aver mai ricevuto il messaggio? Per gli sms si potrebbe chiedere al provider telefonico, ma come si può procedere nel caso di Whatsapp, le cui chat sono crittografate “end to end”? Infatti, con questo tipo di crittografia solo le due persone che stanno comunicando possono leggere ciò che viene inviato e nessun altro, nemmeno il social stesso, può farlo. Quindi Whatsapp dovrebbe creare una “chiave” che riesca in qualche modo ad aggirare questo metodo di sicurezza, cosicché anche lui possa leggere i messaggi e i file media. Questa distopia, però, farebbe sì che la privacy di tutti gli utenti del social sia a rischio, dato che la crittografia end to end non sarebbe più sicura.

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Nonostante questa impossibilità il social, nelle faq, dice di prestare massima collaborazione alle forze dell’ordine istituendo un modulo apposito per le emergenze. Ma un esempio di come si svolgerebbero i fatti ci viene fornito proprio con il caso da cui è scaturita la sentenza della Cassazione: un padre ha negato alla sua ex moglie la retta per l’asilo del figlio dichiarando di non aver mai autorizzato la stessa. In verità, secondo lo scambio dei messaggi, l’uomo avrebbe acconsentito alla spesa tramite sms e la Cassazione ha dunque utilizzato tale prova ponendo per la prima volta alla pari il messaggio digitale con quello cartaceo. In ogni caso, l’ultima parola spetterà sempre al giudice, che potrà decidere di accertare questa corrispondenza con altri mezzi di prova.

Data:

30 Luglio 2019