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GIAIME PINTOR

La macchina “ideologica” che alimenta la guerra si manifesta in quei deliri di massa  noti alla Storia in cui naturaliter emergono dissennate e antitetiche prospettive simboliche  in cui si mischiano illusioni nazionalistiche, suggestioni euforiche, sete di sangue e dominio.

Nel guazzabuglio dell’incoscienza allignano  la trasfigurazione in chiave spiritualistica della guerra, l’apologia della  morte  “necessaria” antitesi alla banalità e povertà spirituale della vita quotidiana e la contrapposizione fra il destino (Schicksal) (inaccessibile all’indagine scientifica) e la razionalità (fondata sulla causalità, sul pensiero meccanico e calcolante).

Nel guazzabuglio come si pone un intellettuale di fronte al bellicismo? La storia di Giaime Pintor può offrire una risposta alla domanda.

La sua vita è stata stroncata  nel fiore degli anni mentre una guerra scellerata lacerava l’Italia. Venivano stroncati gli impegni che lo avevano visto un intellettuale stimato e veniva stroncata la maturata consapevolezza di cosa realmente rappresentasse l’allucinazione prodotta dalla propaganda bellicista.

Il 1° dicembre 1943 a Castelnuovo al Volturno (Isernia), Giaime Pintor, nato a Roma nel 1919 in una famiglia della buona borghesia sarda, appena 24enne veniva dilaniato da una mina, mentre stava attraversando la linea del Volturno, per raggiungere Roma. Il suo corpo restò a lungo insepolto in mezzo al campo minato, «riverso in terra con il viso perfettamente riconoscibile». Dopo due mesi venne rinvenuto dai contadini di Castelnuovo al Volturno che, con coraggio, recuperarono le spoglie e le tumularono ai margini di una vigna incolta, sotto una piccola croce di legno. Brillante traduttore, fine saggista, recensore, autore di opere drammaturgiche e di sceneggiature, organizzatore instancabile alla “scuola delle invenzioni” (la Casa editrice Einaudi), pensatore non riconducibile a nessun partito fin dai primissimi anni, in Giaime, si era dedicato allo studio  in particolare della storia.  

Così si esprimeva il diciassettenne in alcune frammentarie annotazioni retrospettive: «Sentivo molto tutte le privazioni di libertà […]. Certo leggevo moltissimo […]: fra i sei e i quindici anni credo di aver letto tutto quello che è stato scritto per ragazzi»

Nel 1936, decise, contro il parere della famiglia, di saltare l’ultimo anno di liceo e sostenere l’esame di maturità come privatista per poi iscriversi alla facoltà di giurisprudenza dell’università di Roma.

Perfezionò lo studio delle lingue, le letterature europee, la filosofia, la storia, la politica. Pur mantenendo un atteggiamento di  distanza nei confronti delle attività obbligatorie di esercitazione e istruzione paramilitare, partecipò attivamente, insieme con molti altri coetanei in seguito confluiti nell’antifascismo militante, ai Littoriali. E fu proprio grazie a quelle manifestazioni, in cui appariva evidente il tentativo di sottomettere le ragioni della cultura a quelle dell’ideologia dominante, che Pintor iniziò a distaccarsi  dal fascismo e dalle sue liturgie collettive.

Contribuirono alle sue scelte, oltre al profilarsi del tragico destino delle sorti dell’Europa, le importanti amicizie di  Manlio Mazziotti, Jader Jacobelli, Mischa Kamenetzky (quest’ultimo dopo la guerra adottò, anche in omaggio alla memoria dell’amico scomparso, il nome Ugo Stille, con il quale entrambi avevano firmato alcuni articoli).

Nell’aprile 1938, meno di un mese dopo l’Anschluß, nella rivista Il Frontespizio apparve la sua prima traduzione rilkiana.

L’entrata in guerra dell’Italia fu così raccontata nel suo diario: «Così ci unimmo alla fiumana di persone che si avviava a Piazza Venezia. […] Il discorso fu breve e poi tutto quel popolo chiassoso e felice si riversò nelle strade e corse al Quirinale a salutare il Re. Noi seguimmo perplessi il movimento della folla, guardando i volti eccitati delle donne e godendo lo splendido crepuscolo di giugno. Così questo fatto atteso e temuto era entrato nella nostra vita…» (Doppio diario, a cura di M. Serri, 1978, p. 72).

 Pochi giorni dopo, non ancora ventunenne si laureò e il 1° luglio partì alla volta di Perugia, per raggiungere il reggimento cui era stato assegnato. Scriverà: «Qui a Perugia sanno appena che c’è la guerra, e la tradizione papalina gliela deve far apparire come un fatto in fondo trascurabile».

 Il suo trasferimento a  Torino presso la Commissione  gli consentì due anni e mezzo di straordinario fervore intellettuale, grazie soprattutto all’amicizia con Felice Balbo e Cesare Pavese e al sodalizio con la casa Einaudi, di cui Pintor divenne uno fra gli elementi di punta.

 All’indomani del 25 luglio, appena rientrato da Vichy, dove era stato trasferito mesi prima presso la missione italiana, tornò a Roma, dove rimase fino al settembre, lavorando senza sosta al progetto einaudiano di una testata giornalistica e intessendo relazioni a tutti i livelli in una sorta di ruolo di collegamento tra le sfere militari e i partiti antifascisti.

 Dopo aver partecipato agli scontri a Porta San Paolo (cfr. la testimonianza di Aldo Natoli, in Giaime Pintor e la sua generazione, 2005, pp. 323 s.), l’11 settembre partì per Brindisi, dove trascorse «dieci pessimi giorni presso il Comando Supremo» (Il sangue d’Europa, cit., 1950, p. 185), e di lì, dopo aver disertato, Napoli dove, con l’appoggio di Croce, si stava cercando di costituire un corpo di volontari, i Gruppi combattenti Italia, da affiancare agli Alleati.

Fallito anche questo progetto, con Aldo Garosci e Dino Gentili decise di riattraversare le linee per raggiungere e organizzare i gruppi armati che operavano a sud di Roma.

La morte lo colse prima che il suo tentativo potesse realizzarsi.

Pochi giorni prima di morire, il 28 novembre, scrisse una lettera al fratello, in cui affermava:

“la guerra, ultima fase del fascismo trionfante, ha agito su di noi più profondamente di quanto risulti a prima vista. La guerra ha distolto materialmente gli uomini dalle loro abitudini, li ha costretti a prendere atto con le mani e con gli occhi dei pericoli che minacciano i presupposti di ogni vita individuale, li ha persuasi che non c’è possibilità di salvezza nella neutralità e nell’isolamento. Nei più deboli questa violenza ha agito come una rottura degli schemi esteriori in cui vivevano: sarà la “generazione perduta” che ha visto infrante le proprie “carriere”; nei più forti ha portato una massa di materiali grezzi, di nuovi dati su cui crescerà la nuova esperienza. Senza la guerra io sarei rimasto un intellettuale con interessi prevalentemente letterari: avrei discusso i problemi dell’ordine politico, ma soprattutto avrei cercato nella storia dell’uomo solo le ragioni di un profondo interesse, e l’incontro con una ragazza o un impulso qualunque alla fantasia avrebbero contato per me più di ogni partito o dottrina. “

  (..) una gioventù che non si conserva «disponibile» è compromessa. A un certo momento gli intellettuali devono essere capaci di trasferire la loro esperienza sul terreno dell’utilità comune, ciascuno deve sapere prendere il suo posto in una organizzazione di combattimento. (…) “ti assicuro che l’idea di andare a fare il partigiano in questa stagione mi diverte pochissimo; non ho mai apprezzato come ora i pregi della vita civile e ho coscienza di essere un ottimo traduttore un buon diplomatico, ma secondo ogni probabilità un mediocre partigiano. Tuttavia è l’unica possibilità aperta e l’accolgo. Se non dovessi tornare non mostratevi inconsolabili. Una delle poche certezze acquistate nella mia esperienza e che non ci sono individui insostituibili e perdite irreparabili, Un uomo vivo trova sempre ragioni sufficienti di gioia negli altri uomini vivi, e tu che sei giovane e vitale hai il dovere di lasciare che morti seppelliscano i morti.”

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Data:

25 Marzo 2025