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Caos ad Hong Kong

Il 27 marzo 1993 s’insediò al governo di Pechino Jiang Zemin, già da quattro anni segretario generale del Partito comunista cinese, simbolo della cosiddetta terza generazione nonché fervente promotore di una serie di riforme che avrebbero convertito il Paese ad un modello economico sostanzialmente capitalista in grado di trasformare la nazione, nel giro di pochi anni, in una delle più grandi superpotenze mondiali. Innanzi ad un evento simile passò quasi in secondo piano un’importante riforma legislativa approvata nello stesso anno nella vicina Hong Kong: l’abolizione della pena capitale.

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Ad alcuni tale provvedimento potrà apparire banale, eppure, da quel momento in poi furono in molti i dissidenti politici cinesi che per fuggire da una pena di morte pressoché certa hanno chiesto aiuto allo stato del fiume delle perle, uno stato che, sebbene le proprie ridotte dimensioni e la propria scarsa influenza politica, non aveva mai accettato di estradare alcun uomo o donna nella potente Cina.

Ad ogni modo, con l’inizio del mandato di Jiang Zemin ebbe inizio anche un profondo disgelo fra i due paesi; progressivamente Hong Kong si allontanò sempre più dalla fino ad allora alleata Gran Bretagna per stringere un sempre maggior numero di accordi commerciali con i cinesi rispetto ai quali, forse, condividevano non solo numerosi interessi ma perfino svariate affinità culturali.

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Ebbene, nel 1997 tale empatia ha portato la Repubblica Popolare a far si che Hong Kong concedesse la propria sovranità alla Cina, eleggendo un governatore (essendo una colonia non si può parlare a tutti gli effetti di un capo di stato) straordinariamente ben disposto nei confronti di Pechino e, ultimo evento in ordine di tempo, modificando le proprie leggi sul diritto di estradizione. A partire da ora, qualunque criminale (o presunto tale) potrà essere ricondotto in Cina, a Taiwan o perfino nella piccola Macao su richiesta delle apposite autorità competenti, un cambiamento che potrebbe non solo portare nei prossimi anni centinaia di innocenti a subire processi sommari e ad essere condannati a morte, ma che potrebbe perfino provocare un notevole danno economico alla “regione speciale” di Hong Kong.

Già, perché negli ultimi anni erano stati tantissimi gli imprenditori che per sfuggire alla morsa e all’invadenza del governo cinese avevano cercato rifugio ad Hong Kong garantendo al Paese nuove entrate fiscali, maggiore prosperità e un benessere che col tempo non ha tardato a raggiungere anche le classi sociali più deboli. Eppure, la maggior parte di loro in seguito alle recenti modifiche legislative difficilmente tentenneranno prima di raccogliere i propri beni e di trasferirsi, con la sempre costante compagnia dei propri ingenti capitali, in nazioni dove le leggi sull’estradizione non sono ancora state modificate.

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Non è dunque difficile comprendere come mai tale provvedimento ha scatenato l’indignazione e le proteste di gran parte della popolazione locale: da alcune settimane le piazze di Hong Kong sono state invase da oltre 22.000 manifestanti i quali hanno chiesto a gran voce al governo di rivedere le proprie posizioni. Ancor più scalpore tuttavia sembrano aver generato i disordini verificatisi nel fine settimana in parlamento; se infatti è vero che le istituzioni di una nazione dovrebbero rappresentare emblematicamente i vizi e le virtù dei propri concittadini, si direbbe che il “consiglio legislativo” (l’assemblea monocamerale) hongkonghese sia riuscito a rappresentare perfettamente le tensioni ed i dissidi presenti nella nazione. Durante il dibattito in merito all’approvazione dell’ormai famigerata legge, i deputati dell’opposizione avrebbero infatti tentato con la forza di privare il Presidente dell’Aula (la cui nomina è stata ratificata appositamente poche ore prima dell’inizio della seduta) del microfono con cui stava parlando. Ne è seguita una rissa al termine della quale un parlamentare, dopo essere stato scagliato per terra, è stato portato via in barella; un secondo parlamentare invece, ha dichiarato di essere stato colpito alla testa in modo tanto brutale da aver avuto le vertigini.

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Sebbene profondi siano i dissapori che stanno dividendo e che, si presume, continueranno a dividere nei prossimi giorni il Paese, è tuttavia utile considerare che oltre ad un’opposizione (parlamentare e non) critica nei confronti del provvedimento vi sono anche una serie di esponenti politici disposti ad utilizzare la propria credibilità per difendere lo stesso: è il caso della governatrice Carrie Lam, leader indiscussa della nazione e fervente sostenitrice delle politiche filo-cinesi, secondo la quale questa legge potrà assicurare alla giustizia non solo dissidenti politici ma anche e soprattutto assassini, ladri e stupratori. In altre parole, ancora una volta i confini della verità appaiono ben meno distinti di quanto non vorremmo, e forse in fondo, è difficile immaginare che nell’ambito di una questione così complessa le ragioni possano appartenere esclusivamente ad una fazione o a un’altra.

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Data:

15 Maggio 2019