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Germania: ergastolo per Niels Hogel

Quando all’ospedale di Delmenhorst, Bassa Sassonia, giunse un nuovo infermiere dal corpo pingue ed i capelli rasati sui lati, l’intero personale medico sembrò entusiasta dell’idea di poter collaborare con una persona così capace: “lavora in maniera indipendente e coscienziosa e nelle situazioni di crisi, si comporta sempre in modo lucido oltre che tecnicamente corretto”, queste erano le referenze ufficiali scritte per lui dai suoi superiori del reparto di rianimazione di Oldenburg, dove nei tre anni precedenti aveva lavorato. In effetti, qualunque persona abbia avuto la relativa fortuna d’imbattersi nell’inedito infermiere ha più volte confermato (anche sotto giuramento) che nei momenti più critici egli tendeva ad esaltarsi, manifestando una freddezza e un controllo dei propri nervi non comune neppure fra i più levigati professionisti: quello che nessuno all’epoca poteva ancora sapere, tuttavia, era che la maggior parte di tali crisi erano indotte proprio da lui al fine di poter manifestare le proprie capacità.

Alcuni lo conoscono come “il mostro di Oldenburg”, altri come “tod-Hogel” (il mortifero Hogel), altri ancora come il più feroce serial killer dell’intera Germania (secondo il New York times del mondo). Ma la verità è che, più semplicemente, il nostro protagonista altro non era che il semplice figlio di un’avvocatessa locale e di un infermiere: il suo nome era Niels Hogel. Cresciuto senza manifestare alcun problema evidente e conseguendo un ottimo rendimento scolastico a Wilhelmshaven – una città di medie dimensioni alla foce del fiume Jaden, dov’era cresciuto – una volta divenuto adulto Niels non ebbe alcun dubbio prima di decidere di seguire le orme paterne.

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Fin dai primi anni della sua carriera destò non pochi sospetti il fatto che le situazioni di crisi e (conseguenza quasi inevitabile) la percentuale dei pazienti deceduti tendessero a moltiplicarsi quand’egli era in servizio; secondo le statistiche relative agli anni in cui Hogel si dedicò alla professione infermieristica, oltre il 58% delle vittime totali dell’ospedale perse la vita mentre egli era al lavoro. Viceversa, valutando le tre settimane in cui per motivi personali dovette assentarsi, nel suo reparto persero la vita solamente due uomini: una cifra sinistramente meno elevata del solito. Tali numeri sembrarono generare non pochi sospetti sulla sua figura; ma prove ancor più plateali della sua colpevolezza giunsero proprio da una serie di testimonianze raccolte negli anni immediatamente successivi. Un suo collega, infatti, avrebbe testimoniato di aver visto ”tod-hogel” iniettare personalmente un farmaco letale ad un paziente di sessantatré anni, mentre quattro flaconcini vuoti di Gilurytmal non prescritti da alcun medico sarebbero stati ritrovati nel reparto dove l’infermiere prestava servizio.

Cionondimeno, il fatto che gran parte delle vittime fosse ormai stata cremata e che tutte le altre erano da tempo state sepolte rese impossibile non solo effettuare un’autopsia su di esse senza il consenso di un giudice, ma perfino dimostrare che la morte era stata causata dall’avvelenamento e, di conseguenza, ricondurre i decessi alla condotta negligente di Hogel.

Nel 2006 il giudice Sebastian Buhrmann, al termine di un controverso processo, assolse l’imputato dalla maggior parte delle accuse a suo carico: “Non abbiamo capito cosa sia successo e non abbiamo trovato risposta ai casi in questione” ha dichiarato riferendosi a quei giorni, ammettendo di fatto le numerose ambiguità implicite nella sua stessa sentenza.

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Fu solamente una donna del posto, Kathrin Lohmann, a sbloccare dopo molti anni la situazione. Fermamente convinta del fatto che la morte della sua anziana madre fosse stata cagionata dall’infermiere di Oldenburg, chiese ed ottenne che il corpo della vittima venisse riesumato. Non appena gli esami, com’era ampiamente prevedibile, confermarono che la signora Lohmann era deceduta a causa di un arresto cardiaco legato ad un avvelenamento, non solo ebbero finalmente il via una serie di nuovi processi contro Niels Hogen, ma la magistratura dispose anche il disseppellimento di ben 134 corpi provenienti da ben 67 cimiteri diversi e, nel caso di 85 di essi, venne comprovato che la responsabilità del loro decesso era da ascrivere all’ormai famigerato serial killer della Bassa Sassonia. La vittima più giovane aveva appena 34 anni, la più anziana 96: alcuni erano ormai in fin di vita quando vennero assassinati, altri non avevano problemi di salute irreversibili; alcuni erano benestanti, altri indigenti… sembrava che Hogen non avesse particolari preferenze nello scegliere le proprie vittime, l’unica cosa davvero importante per lui era il fatto di poterle uccidere.

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In seguito, il nostro protagonista avrebbe dichiarato ad un compagno di cella che, dopo la cinquantesima vittima, avrebbe smesso di contarle. Tuttavia, sebbene come detto il numero di omicidi per i quali è stato ritenuto colpevole sia già di per sé considerevolmente elevato, è opinione comune che siano in molte le persone ad essere rimaste vittima del delirio omicida di Hogen senza che nessun magistrato se ne accorgesse: se dovessimo infatti raggruppare i pazienti ai quali lo spietato infermiere è sospettato di aver somministrato una dose letale di farmaci, il conteggio totale raggiungerebbe le 332 vittime, una cifra senza eguali.

Nella giornata di venerdì, il giudice Sebastian Buhrmann (lo stesso che in passato lo aveva assolto) ha deciso di contraddire la propria sentenza di tredici anni prima condannando l’infermiere all’ergastolo, aggiungendo che in molte nazioni straniere l’imputato sarebbe stato costretto a scontare 1.275 anni di carcere (quindici per ognuna delle sue vittime) ma siccome a causa di una particolare legge tedesca neppure l’uomo più cinico al mondo può essere condannato per più di dieci assassini contemporaneamente, all’ex infermiere spetterà una permanenza in cella di “soltanto” centocinquant’anni; una semplice precisazione giuridica che, tuttavia, non altera in alcun modo la sostanza degli eventi nonché la certezza che lo spietato criminale trascorrerà il resto dei suoi giorni in prigione.

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Ovviamente, non esistono dubbi sul fatto che la condotta di Hogen sia stata meritevole della più severa condanna. Eppure, ciò non può in alcun modo distrarci da una certezza altrettanto radicata ma forse più difficile da accettare: per anni l’infermiere è stato libero di continuare a fare il proprio lavoro e di uccidere centinaia di persone innocenti malgrado su di lui pendessero già fondati e insistenti sospetti, se non perfino prove evidenti e plateali relative alla sua colpevolezza. Se tutto ciò è potuto avvenire, significa che i vertici di più d’un ospedale tedesco, tramite la propria struttura gerarchizzata e spesso fin troppo protettiva nei confronti di alcuni dei propri sottoposti, ha di fatto manifestato una forte lentezza nel rimuovere Hogen dal suo delicato incarico rallentando conseguentemente il corso di una giustizia che solamente oggi, a distanza di quasi vent’anni dal primo assassinio del serial killer, è finalmente giunta ad emettere un verdetto convincente ed equo. Forse, in fin dei conti, ciò che maggiormente dovrebbe farci riflettere non è l’efferatezza delle azioni di un singolo criminale, ma la complicità di coloro che tanto a lungo lo hanno circondato. Una complicità forse legata più all’apatia e all’incuria che ad un reale intento doloso, ma non per questo maggiormente tollerabile da parte nostra.

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Data:

9 Giugno 2019