
Manfred Spitzer, psicologo e studioso di neuroscienze, nel suo libro “Demenza digitale”, fece cenno al famoso “circolo ermeneutico”, ovvero «chi vuole comprendere, riconosce il tutto attraverso le parti e le parti attraverso il tutto; approfondisce l’indizio di una fonte attendibile e, se non approda a nulla, torna alla fonte attendibile». Il cenno a questa famosa teoria elaborata da Dilthey e poi ripresa anche da Heidegger e Gadamer, è servita a Spitzer per sottolineare come «i nativi digitali non compiono il circolo ermeneutico della comprensione: cliccano qua e là acriticamente, senza mai tornare a una fonte attendibile; cercano in maniera orizzontale (vale a dire superficiale), anziché verticale (non vanno in profondità)». Il testo di Spitzer era del 2012 e oggi, a 13 anni di distanza, e con una pervasività dei device digitali tra gli adolescenti ormai vicino al livello di saturazione, si discute delle performance scolastiche dei nostri giovani rapportandole appunto all’uso smodato degli smartphone.

Un recentissimo studio effettuato dall’Università degli Studi di Milano-Bicocca denominato “Eyes Up”, condotto su più di 6500 studenti delle scuole superiori lombarde, ha evidenziato dati preoccupanti che confortano (purtroppo) ciò che Spitzer già diceva e ammoniva nel suo libro: l’uso precoce di social e smartphone influenza le competenze linguistiche e matematiche degli studenti. Gli studenti che utilizzano i social prima dei 12 anni hanno punteggi ben inferiori nelle prove Invalsi di italiano e matematica rispetto ai loro coetanei che invece hanno un accesso ai social più tardivo, ovvero a 14 anni. Si può dunque parlare di un gap educativo importante oltre che di un preoccupante impatto negativo sul livello di attenzione e concentrazione, presupposti fondamentali per ottenere buoni risultati a scuola. Tornando a Spitzer, l’autore diceva che «il nostro cervello non è solo l’organo più complesso, bensì anche il più dinamico del nostro organismo. Il cervello si modifica in base all’utilizzo». Capacità di riflettere, elaborazione delle nozioni appena apprese, lasciare decantare le informazioni perché si fissino nel nostro cervello pronte per poi essere richiamate all’occorrenza. Sono tutte attività che a causa della frenesia e ella velocità di esecuzione instillata negli algoritmi social, vanno a interferire in modo determinante sull’apprendimento dei giovani (e non solo).

Superficialità e immediatezza nelle risposte sono poi due contesti tipici dei social in grado di influenzare l’autostima dei minori e lo sviluppo emotivo, con rischi di patologie come ansia e depressione. È il risultato inevitabile di interazioni online a base di ricompense simboliche sotto forma di like, cuoricini e commenti, fenomeni che promuovono un costante distacco dalla realtà. L’investimento emotivo associato all’uso intensivo dei device ad opera dei ragazzi (con una percentuale maggiore del sesso femminile), può interferire pertanto con l’apprendimento scolastico. Famiglia e scuola, come spesso accade quando si parla di adolescenti e problematiche inerenti il loro sviluppo, possono fare molto, come per esempio intervenire nella quotidianità dei ragazzi (limitare l’uso durante alcuni momenti della giornata come prima di andare a dormire e dopo il risveglio) o incentivare una media education in cui gli stessi studenti comprendano dal vivo il funzionamento dei device dal loro interno, comprendendo le dinamiche soggiacenti. Sarebbe forse il caso infine di raccogliere l’invito di Marc Prensky, colui che ha coniato il fortunato termine di “nativi digitali”, e promuovere la «saggezza digitale», ovvero creare degli strumenti in grado di aumentare la consapevolezza di sé e responsabilizzare sempre più le persone a usare questi strumenti in modo saggio e collaborativo.
Andrea Alessandrino