Con un debito pubblico che veleggia verso i 3.000 miliardi e un Governo che tenacemente riduce la pressione fiscale sui ricchi e taglia servizi essenziali, la questione è attuale
Qua e là sui media, quando si tocca il tasto del debito pubblico italiano che veleggia verso i tremila miliardi di euro, rispunta la proposta di un governo tecnico; cioè di un governo composto di persone ritenute “tecnici” che quindi non farebbero scelte politiche, limitandosi ai provvedimenti essenziali per rimettere sotto controllo i conti dello Stato.
Come diceva un politico famoso (Giulio Andreotti) ” A far peccato si fa male ma si indovina!” proviamo a pensare male, e a chiederci “Perché si usa sempre l’aggettivo “ordinario” per un governo politico? Solo gli ingenui, o i distratti ( e sono sempre di più, perché chi ha problemi di sopravvivenza ne è certamente distratto!) credono che quanto appare sui media italiani (almeno quelli più diffusi) non sia attentamente pensato, scelto, soppesato e valutato; quindi l’uso dell’aggettivo ha certamente una funzione. Quale sia questa funzione è scontato: in un contesto dove il termine “politico” viene associato a partiti al governo come sinonimo di “inefficente, incapace, eccetera” usare il termine “ordinaria gestione” serve per contrasto a far vedere (ricordate lo spot: ” questo lava più bianco!”) un Governo come efficiente, capace, onesto, eccetera.
Certamente un Governo deve essere efficiente, capace, onesto, e sicuramente alcuni membri di ogni governo, anche di quello in carica, lo sono; le loro prebende non sono ottenute tramite tangenti o bustarelle, ma con legali retribuzioni e benefit; il benessere dei loro figli non è ottenuto tramite soldi del Partito, ma attraverso leciti contratti stipulati (anche) con imprese che, sempre legittimamente, agiscono sul mercato dei capitali che ogni governo, legittimamente, influenza in modo decisivo; e certamente alcuni membri di ogni Governo sono accademicamente preparati (se scrivessimo “più preparati” si potrebbe credere che altri lo fossero meno, non sia mai!), ben più serio, e meno viziosi (ci riferiamo ai sette vizi capitali, chi non li conosce vada a ripassare il catechismo), di altri governi (ovviamente si parla in media statistica; è certo che ci sono state persone in gamba anche nei precedenti governi degli ultimi 50 anni!).
Ma, soprattutto, un Governo deve governare seguendo (in modo efficiente, è meglio) una (o più) linee di condotta , se queste linee sono politiche sarà un Governo politico, se sono tecniche sarà un governo tecnico. O bianco o nero. Ne segue che un governo tecnico non dovrà assolutamente fare scelte politiche, vale a dire scelte che vadano oltre la semplice gestione operativa che potrebbe fare qualunque Direttore Generale in mancanza del Ministro: niente cambiamenti di organico, niente cambiamenti nella scelta delle spese, niente scelte radicali di ridistribuzione dei redditi., eccetera…tutte azioni che invece questo governo sta compiendo con la massima determinazione; quindi si tratta di un governo “politico” al 100%.
Assodato che di governo politico si tratta, come lo qualificheremo? Non ci interessa (e non riteniamo ormai storicamente corretto, perché un errore tipico degli elettori è attribuire al termine “sinistra” o “destra” di oggi i valori di magari 50 anni prima) qualificarlo come “destra” o “sinistra”, a meno di non intendere che si tratti della collocazione nell’emiciclo parlamentare dei deputati che lo votano.
Ragioniamo su quel che è evidente e indiscutibile: questo governo ha di fatto il pieno appoggio di FdI, di Forza Italia , e della Lega perché sono i partiti che in Parlamento ogni volta gli danno la fiducia.
E ha l’appoggio dei poteri “forti” che gestiscono (non tratteremo qui come) il debito pubblico italiano; poteri che potremmo semplificare con il termine “banche”, o “finanza internazionale”, o “capitalisti”, tutti termini sfuggenti. Va ricordato sempre che questo governo, politico e di coalizione, è andato al potere perché il precedente era ritenuto dagli elettori incapace di gestire la questione immigrazione, mentre governi tecnici sono andati al potere perché ritenuti incapaci di gestire il debito pubblico italiano. C’è qui un interessante parallelismo (la storia si ripete sempre, ma mai nello stesso modo) con quanto accadde a Silvio Berlusconi nel 1992, quando fu “commissariato” dalle banche poiché il suo gruppo televisivo era alla bancarotta: le banche crearono un consorzio di gestione per la liquidazione o il risanamento del gruppo, incaricandone Franco Tatò. Allora Silvio Berlusconi reagì all’imminente fallimento con un colpo di genio (saremo sempre tra quelli che riconoscono la genialità di Silvio Berlusconi come imprenditore) inventando Forza Italia, entrando in politica e…il resto è storia; la situazione oggi è bene diversa e siamo curiosi di vedere se con Piersilvio Berlusconi il parallelo si ripeterà, per sapere cosa si inventerà adesso, perché l’uomo punta a eguagliare il padre.
Quindi abbiamo un governo politico, di coalizione, con obiettivi politici neo liberisti. Se fosse composto da tecnici, se si guarda al passato, vista l’estrazione di classe, l’attività lavorativa e la rete sociale di appartenenza, dire che i tecnici sono scelti esclusivamente per la loro competenza è come dire che il Papa viene messo a gestire il Vaticano solo perché è un buon vecchio. Nessuno dei membri dei governi tecnici proviene dalla classe sociale povera o media; tutti hanno, hanno avuto e avranno, redditi ben al di sopra di quelli della cosiddetta “casta” dei parlamentari. Tutti hanno un posto fisso e protetto che più non si può (magari svolto in luoghi diversi, ma siamo certi che qualunque persona cui fossero offerte le stesse retribuzioni, dimostrerebbe la massima mobilità e disponibilità a cambiare lavoro, azienda, città e anche Stato).
Su tutti i media, o almeno su tutti quelli collegati ai partiti al Governo (perché i partiti di Governo sono quelli che lo appoggiano, non importa se gli uomini al Governo sono tesserati o meno), l’azione del Governo viene implicitamente riconosciuta come indispensabile: si afferma indispensabile il risanamento, si lamenta la “riduzione della spesa pubblica” ma la si ritiene necessaria, si afferma indispensabile il rientro del debito pubblico, e così via. Ma la linea politica di un Governo non va valutata dal fatto che agisca (il Governo sta lì per governare!), ma dalle scelte che fa. O che non fa. La scelta di questo Governo è ridurre in termini reali le spese destinate ai servizi sociali e ridurre le entrate provenienti dalla classe ad alto reddito.
La scelta politica è che il taglio delle spese, e l’aumento delle entrate, vanno a colpire (e questa è certamente una scelta politica) esclusivamente le classi povere. Per essere precisi aggiungiamo che riteniamo “poveri” il 98% degli italiani a reddito più basso, inclusi quindi proletari, sub-proletari, classe media, piccoli imprenditori e piccoli professionisti; non usiamo qui la definizione ISTAT, per cui si dovrebbe usare più correttamente la definizione “in miseria”, ma si sa che le definizioni degli Istituti Centrali di Statistica sono troppo spesso concepite per rendere non percepibili determinati problemi.
Tutti i provvedimenti di questo Governo vanno a colpire esclusivamente questa classe, e non toccano incisivamente (né come aumento di imposte, né come riduzione di trasferimenti) la classe del 2% più ricco. Anzi, lo rendono ancora più ricco, poiché la diminuzione dei redditi e l’indebolimento delle normative di tutela delle classi povere incrementano il reddito della classe ricca (definiamo classe ricca quella composta dal 2% dei percettori dei redditi più alti).
Questa scelta politica è assolutamente vecchia: è la stessa seguita da Reagan negli USA, dalla Thatcher, nel Regno Unito. La stessa politica che ha portato, dopo qualche decennio, alla crisi iniziata negli USA nel 2009, ma preannunciata da 20 anni. Ma questo non ci consola, perché il nostro Governo fa come i militari di carriera, che entrano in ogni nuova guerra usando armi e tecniche della guerra precedente.
Chiarito quindi che questo è un governo politico, neoliberista, che sta peggiorando la situazione delle classi povere, e che segue approssimativamente la politica economica reaganiana, diventa facile dedurre le conseguenze di tale politica, tenendo conto che l’Italia non è uno stato degli USA.
Negli USA non ci sono le mafie diffuse, non ci sono le mafiette che riempiono di nipoti, figli e cugini la Pubblica Amministrazione e le aziende private, non c’è il disprezzo concreto per la competenza e la preparazione che ci sono in Italia; qaundo ci sono, non sono al livello dell’Italia.
Soprattutto non c’è la sistematica sfiducia che sta dilagando verso questo Governo (e i precedenti), e che è volutamente attenuata dai media. Per la crescita ci vuole fiducia, e gli elettori italiani d’origine non sono un popolo di imbecilli a cui si possa raccontare che le cose vanno meglio quando vedono che viene gradualmente tolta ogni sicurezza, tutela e prospettiva; forse non tutti sono bravi ragionieri, ma se andiamo a calcolare l’ammontare della retribuzione percepita nel corso della vita lavorativa e pensionistica (perché la pensione è retribuzione differita) considerando l’inflazione vera (non quella ISTAT, di cui tutti ridono, e molti piangono, specie se hanno qualcosa di indicizzato), questo Governo sta attuando un taglio dei redditi (non useremo il termine ottimizzazione, ormai ridicolo) comparabile, e probabilmente superiore, a quello del 40% già subìto dalle classi povere con l’introduzione dell’euro.
Alberto Perotti