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“I COLORI DELLA LUCE” A NAPOLI

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La fondazione napoletana Plart inaugurerà, il prossimo 29 novembre, una mostra su Bruno Munari intitolata “I colori della luce”, curata da Marcello Francolini e Miroslava Hajek, storica e critica d’arte di origini ceche che fondò, nel 1970, lo studio “UXA Centro d’Arte Contemporanea” di Novara. Quest’ultima, a cui abbiamo rivolto alcune domande, è in possesso dell’unica collezione del Munari, le cui opere principali entreranno a far parte di un’esposizione strutturata filologicamente e composta con la collaborazione dello stesso artista, scomparso il 30 settembre 1998.

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Come è cominciata la sua collaborazione con Bruno Munari?

cms_10950/Miroslava_Hájek_.jpgHo conosciuto Munari nel 1967, quando studiavo storia dell’arte all’università di Brno. In quegli anni, Bruno cominciò a inviarmi la documentazione sul suo lavoro artistico.

Quando, non potendo rientrare in Cecoslovacchia, fui costretta a restare in Italia, fondai a Novara, nel 1970, lo studio d’arte contemporanea UXA. Munari mi propose di specializzarmi nella ricerca sulle problematiche sollevate dal suo lavoro artistico. Un’iniziativa insolita, di cui posi le basi in quello stesso anno, nata dalla battaglia che l’artista stava combattendo contro un certo tipo di sistema dell’arte. Munari non era interessato al mercato vigente, quindi non attuava una produzione per soddisfarlo e le sue opere più importanti erano (e sono) esemplari unici. Il progetto che abbiamo portato avanti per trent’anni, dunque, era per lui di vitale importanza perché consentiva di rimediare alla mancata o sbagliata considerazione del suo lavoro. L’obiettivo era quello di costruire una raccolta di opere che nel suo insieme rappresentasse l’immagine di Munari artista, che illustrasse l’evoluzione della sua filosofia estetica e che smentisse i pregiudizi e i preconcetti nati circa la sua opera artistica.

La raccolta, strutturata in modo cronologico e composta da tutti i pezzi storici più importanti, documenta in che modo Munari affrontava i suoi temi ricorrenti nel corso del tempo. Evidenzia la profonda coerenza e il legame di continuità tra le varie opere e le diverse linee della sua ricerca estetica.

In che modo Munari riusciva a coniugare le sue esperienze futuriste con quelle del dopoguerra?

Munari raccolse i pensieri più innovativi del primo futurismo e ne ampliò l’originario processo conoscitivo, prima solamente abbozzato, fino a concepire, già nel 1930, un’idea dell’arte come ambiente. Nel 1950 giunse ad annullare la pittura, reinventandola, donandole monumentalità tramite l’uso dell’energia elettrica nelle sue “proiezioni dirette”, prime anticipazioni di video installazioni presentate al MOMA nel 1954.

Nell’ambito del Movimento dell’Arte concreta da lui fondato, Munari sviluppò, anche dopo la seconda guerra mondiale, il concetto futurista di arte “per tutti i sensi”, che andava ad aggiungersi a quello di trascendenza dell’oggetto. Approfondì anche il significato della macchina nell’arte, rendendola biomorfa e donandole una sua poetica.

Fin dall’inizio della sua carriera, Munari esplorò la possibilità di riprodurre nella pittura lo spazio tridimensionale attraverso il flusso continuo di forme, rese mutabili incorporando una dimensione temporale. Nel periodo futurista, concepì contemporaneamente macchine inutili, aeree, stabili, disegni antropomorfi, pitture gestuali, pitture astratto-geometriche chiamate “Anche la cornice”, percorsi tattili e progetti di performance, come per esempio una partitura del 1935 chiamata “Danza sui trampoli”. Tutti questi lavori, apparentemente dissimili, hanno sempre in comune un tratto ben distinguibile. Per esempio, la “Danza sui trampoli” evoca, quasi fosse una percezione extrasensoriale, un’idea tridimensionale della sua “scrittura illeggibile di popoli sconosciuti” realizzata negli anni Settanta. Alla base di tutti i suoi lavori troviamo sempre l’esplorazione delle potenzialità estetiche della matematica e della geometria, che definiscono il suo rapporto con lo spazio.

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Anche i materiali utilizzati, al tempo inusuali (trame di stoffe, brandelli di pelliccia, frammenti di ingranaggi di orologi) tradiscono la sua volontà di ampliare le possibilità espressive. Munari restò talmente affascinato dall’uso di materiali poveri – proposto nel volantino della “ricostruzione futurista dell’universo” di Giacomo Balla e Fortunato Depero – da inserire nelle sue elaborazioni addirittura delle verdure. Per esempio, il guscio della “Macchina inutile stabile”, del 1934, è stato fabbricato adoperando una zucca essiccata. I materiali poveri o recuperati, sensuali come piume e pellicce oppure ordinari come frammenti di meccanismi e retini industriali, sono sempre accuratamente dosati dall’artista, che ne utilizza solo lo stretto necessario affinché siano riconoscibili. Questo minimalismo espressivo lo conduce ad analizzare una nuova spiritualità della tecnologia e gli dà movente per cercare di umanizzare la macchina.

Come nasce l’idea di Munari di dipingere con la luce?

L’ evoluzione di Munari verso la smaterializzazione dell’opera d’arte culmina nel 1950 con le “Proiezioni dirette”. Si tratta di composizioni inserite tra due vetrini in telai per diapositive e realizzate con varie tecniche, innanzi tutto collage ed interventi pittorici. I materiali utilizzati sono tra i più disparati: cellophane colorati, plastica bruciata, bucce di cipolla, fili di lana, retini, etc. Gli originali vengono quindi nascosti inserendoli nell’apparecchio per le proiezioni e quello che ne risulta è un’immagine ingrandita, che diventa un affresco monumentale dipinto con la luce. Nello stesso anno cerca di dinamizzare queste creazioni, utilizzando vetrini multifocali, in cui l’immagine cambia variando la profondità focale.

A partire dal 1953, il movimento inserisce dietro ai vetrini un filtro polaroid e, ruotandone un altro davanti al proiettore, la luce polarizzata diffusa dai materiali contenuti nel telaio si scompone nei colori dello spettro. In questo modo, l’opera proiettata continua a cambiare.

La luce è un elemento essenziale del concetto creativo, che non solo ha in sé il contenuto simbolico tradizionale, ma è soprattutto un segno potente per le arti e per il mondo moderno.

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Le proiezioni si manifestano in particolare nella percezione di grande estensione data dall’utilizzo spaziale. Esse esprimono uno dei pensieri più importanti di Munari, quello che lui citava evidenziando che in giapponese il suo cognome significava “far dal niente”.

Munari introdurrà successivamente il fattore cinetico usando vetrini bifocali, o proiettando diapositive in una sequenza ritmata, creando quasi un film spezzato. Tuttavia, la soluzione per lui più soddisfacente consisteva nell’uso della luce polarizzata.

Nella sua esplorazione delle possibilità espressive della luce elettrica, Munari si ispira indubbiamente ad esperienze precedenti. In particolare, era attratto dal pianoforte Optophonic del futurista russo Vladimir Baranoff-Rossiné (1888-1944), che generava suoni e proiettava immagini girevoli su una parete o sul soffitto dirigendo una luce brillante attraverso una serie di filtri, dischi di vetro dipinti e rotanti, specchi e lenti. La tastiera controllava la combinazione dei vari filtri e dischi. Le variazioni erano controllate da una cella fotoelettrica e l’intonazione da un unico oscillatore. Lo strumento produceva una continua diversità di suoni, accompagnati dalle proiezioni caleidoscopiche rotanti i cui colori e ritmi strettamente integravano la musica.

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Munari concepì l’idea di usare il proiettore di diapositive per realizzare le sue installazioni luminose sviluppando i principi di un altro futurista ceco, Jiří Kroha, che nei suoi progetti architettonici per le case destinate ai poveri proponeva di proiettare sui muri delle abitazioni delle diapositive di opere di artisti importanti, anziché appendere dei quadri.

A conferma delle connessioni con le idee e con le ricerche di questi artisti è l’attuazione nel 1979 di “Uno spettacolo di luce”, progettato da Munari per l’esecuzione della sinfonia “Prometeo” di Scriabin. Il contributo di Munari al tema e l’originalità dell’allestimento sono segnate dall’assenza di filtri colorati o altri accorgimenti: gli effetti di colore sono prestabiliti e dipendono solo dalle differenti fonti luminose impiegate.

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La mostra si intitola “I colori della luce” ed è incentrata sulle proiezioni a luce polarizzata. Come funzionava la loro presentazione allora, negli anni ‘50?

Munari, utilizzando la tecnologia di un potente proiettore per diapositive, crea ambienti dipinti con la luce, effettive anticipazioni delle video-installazioni. Quest’idea diventa il punto di partenza per i suoi elementi formali, che lo portano ad approfondire rapidamente l’uso dell’elettricità come sorgente luminosa, con la possibilità di smaterializzare l’opera e ricostruirla in una misura di pittura evanescente.

Negli anni Cinquanta gli esperimenti con la luce polarizzata portano Munari a raggiungere l’obiettivo che si era prefisso. La scoperta delle proprietà dei filtri polaroid di scomporre la luce nei colori dello spettro gli apre una vasta possibilità di sperimentazioni. In questo caso le elaborazioni tra due vetrini per le proiezioni sono create con fogli trasparenti, piegati, qualche volta incisi, con un filtro polaroid come sfondo. Solo più tardi entrano nelle composizioni delle strutture geometriche nere.

Munari proiettò questi vetrini facendo ruotare un altro filtro polaroid davanti all’apparecchio. Progettò a questo scopo un dispositivo ruotante, cercando di evitare l’effetto caleidoscopio facendo spesso girare il filtro manualmente.

Luce e colore, luce elettrica usata in alternativa ai pigmenti dell’artista, ma anche come allusione al colore dello spettro scomposto dal filtro polaroid, in una composizione che appare quasi “musicale”. Le evoluzioni del movimento illusorio nelle “Proiezioni a luce polarizzata” servono a dare l’idea della profondità dello spazio in continua trasformazione. Inoltre, nelle proiezioni a luce polarizzata il movimento illusorio crea volumi e spazi virtuali che si percepiscono visualizzando quello che potrebbe essere definito come “spazio parallelo”.

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A suo avviso, che importanza storica rivestono questi lavori?

Le proiezioni che si trasformano in ambienti di luce hanno inaugurato una nuova modalità di espressione artistica, capace di superare l’oggettività dell’arte legata ai condizionamenti del mercato, recuperando i valori della magnificenza e della monumentalità intrinseche nell’arte del passato, utilizzando però i mezzi espressivi propri della tecnologia moderna. I vetrini per le proiezioni di Bruno Munari non sono molti perché non li ha mai venduti: 8 semplici per le proiezioni dirette sono nella collezione del MOMA, a New York, e una trentina sono in possesso della fondazione Danese. Io detengo 105 vetrini per le proiezioni dirette e quelli a luce polarizzata. In occasione di questa mostra, i vetrini originali sono stati digitalizzati e duplicati, per garantirne una diffusa fruibilità.

In questo lavoro, Munari anticipa per lo meno di mezzo secolo le problematiche visive attuali…

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Data:

25 Novembre 2018