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I NUMERI PRIMI DEL TEATRO: PETER STEIN

In una mite serata invernale, mi ritrovo nel corso principale di Noto.   L’improvvisa maestosità del Duomo barocco, mi riporta alla grandezza del personaggio che sto per incontrare. Varco la soglia di un palazzo settecentesco.  Seduto nella hall di un albergo, ad aspettarmi, c’è un numero primo del teatro: Peter Stein. Berlinese di nascita, attore e regista, allievo di Fritz Kortner, è uno dei più importanti artefici del teatro tedesco ed europeo della seconda metà del Novecento. I tragediografi greci, Shakespeare, Cechov, Goethe, Ibsen e altri ancora, hanno ripreso vita nella loro autenticità, grazie alla sua arte, fatta di creatività, professionalità, mecenatismo. Ha una corporatura massiccia. I suoi occhi piccoli e arguti mi puntano in una situazione di attesa. Mi trovo davanti ad un mito del teatro.

  • Chi è Peter Stein?

Aggrotta le sopracciglia, irrigidisce la mascella. Pensa alla guerra.  L’espressione del viso è quasi adolescenziale con le guance tondeggianti e gli occhi attenti, che esplorano la stanza e  a tratti ostentano durezza.

Dai 4 agli 11 anni ho vissuto la povertà e lo strazio della guerra. Con  mia madre e  mio fratello fuggivamo da un posto all’altro, perché la Germania era stata divisa in quattro zone, ed era presieduta dalle forze militari  delle potenze vincitrici. Distruzione e cadaveri  erano dappertutto. Ricordi che non vanno più via. In ogni spostamento imparavo una lingua diversa. Ho acquisito la conoscenza del francese in quelle drammatiche circostanze. Non ci veniva spiegata la guerra dagli adulti. Nessuno ne voleva parlare. Si taceva anche sui campi di sterminio. Solo dopo la guerra è stato possibile documentarci personalmente e capire quello che era realmente  successo.

  • Come mai si taceva su una tragedia così immane?

Perché i Tedeschi non vogliono passare per come il nazismo li ha trasformati e consegnati al mondo, alla storia.

Con voce bassa, quasi mormorando aggiunge:

Perché voi non avete forse tradito?

Cala il silenzio.

Riprende con tono deciso.

Ad oggi questi due popoli non si sono mai confrontati seriamente su questo segmento di storia che li ha accomunati, per scioglierne i nodi. In quella fase di annientamento fisico e psicologico, tipico di ogni guerra, una certezza l’avevo. Detestavo  tutta la generazione che si era messa al servizio  di quella che fu, non solo una rivoluzione politica, ma culturale e sociale guidata tristemente da Hitler. Non volevo essere come loro, ero certo che non lo sarei mai stato. Volevo dedicarmi a qualcosa che portasse bene  e non  male all’umanità. Soltanto l’arte, nelle sue molteplici sfaccettature, ha questa forza. Apparteneva a quella generazione anche mio padre, con il quale ho avuto un rapporto di conflittualità. Era un ingegnere e ricopriva l’incarico di “ringleader”, ossia di dirigente dell’intero comparto di produzione meccanica tedesca, per conto del Fuhrer. Il Governo nazista infatti aveva consorziato le industrie meccaniche  private, per la produzione di armi, aerei militari e carri armati. Quel sentimento di conflittualità ha segnato la mia vita, sia nei rapporti esterni, dove ho sempre cercato un confronto, una dialettica tra le diverse essenze, sia nel teatro. Un testo si evolve se stimola il dissenso, la discussione, la conflittualità.  Purtroppo questo sentimento ha influito a volte anche sul mio carattere.

  • Perché  la Germania sprofondò in quel baratro?

L’avvento delle masse e delle nuove tecnologie di fine ottocento, a seguito della rivoluzione industriale, diedero la spinta per un regime  democratico  che si  scontrò con il capitalismo. Parallelamente, l’allontanamento dalla religione, dalla fede, portò all’affermazione di nuovi dogmi come il nazismo, il fascismo, il comunismo. Il nazismo del resto era stato preceduto  dall’imperialismo inglese, e dalla grandeur francese.  La Germania con il Trattato di Versailles, oltre ad essere stata umiliata, era sprofondata in una grave crisi economica. L’inflazione raggiunse cifre apicali. Quando i popoli  vivono un periodo di incertezza, la democrazia va in crisi  e il pericolo è che si possa insinuare qualsiasi ideologia distorta.

  • Le democrazie occidentali vivono una fase degenerativa. Cosa ci è sfuggito di mano?

Stiamo perdendo la memoria del passato, anche troppo presto, perché le due guerre , se ci guardiamo dietro , non sono lontane. Quello che possiamo fare è aiutare le nuove generazioni a ricordare, in tutti i modi.  Si deve attivare la scuola, il mondo della cultura . Ognuno di noi ha questo compito. Il teatro poi ha una forza prorompente nel veicolare ogni tipo di messaggio.  

  • Parliamo di Teatro.

La sua produzione di opere è lunghissima e anche l’elenco dei teatri  dove ha rappresentato i suoi lavori. È stato anche l’ideatore della Schaubuhne am Halleschen Ufer di Berlino Ovest di cui è stato direttore dal 1970 e dove ha realizzato alcuni dei suoi spettacoli più riusciti per qualità di invenzione registica come  La Madre di Brecht, di Gorkij, 1970; Peer Gynt di Ibsen, 1971; Prinz Friedrich von Homburg di von Kleist, 1972; As you like it di Shakespeare, 1977.

Schaubuhne  rappresentava la mia idea di “teatro collettivo.”I teatri tedeschi, gli Stadt-theater, sono  grandi macchine burocratizzate, con una gerarchia precisa da rispettare. Hanno programmazioni triennali, i registi si alternano nei vari spettacoli. Ogni Teatro ha il suo rappresentante sindacale. Essendo una Stato Federale, c’è un Ministero per ogni Land che finanzia. Gli attori  sono regolarmente stipendiati e hanno anche un ragguardevole pensionamento. Io aspiravo ad un teatro diverso, più creativo, più democratico, dove ogni attore potesse dire la sua, dalla scelta del testo  ai ruoli da ricoprire, ai compensi economici.  Si trattava di tirare su dal nulla un teatro innovativo, un teatro sociale. È stata una vera sfida in una Germania divisa, dove la paura del blocco comunista era alle porte e il teatro Schaubuhne  presentava un orientamento politico molto di sinistra. Quando si affrontava un nuovo testo, si apriva un nuovo scenario, fatto di studio e di continui confronti, fra il cast e il regista, per cogliere le motivazioni spirituali dell’autore.  Quei confronti  di cui non  riesco a fare a meno, perché  il teatro è un viaggio verso la conoscenza e se si fa insieme si può arrivare in alto. È una combinazione teorica, fatta  di studio, ed una pratica, fatta di rappresentazione scenica. Se le due cose si incastrano nel verso giusto, allora si che nasce un’opera d’arte. Questa è l’eredità che mi ha lasciato Schaubuhne.

  • Con Schaubuhne stavate riscrivendo la storia del Teatro. Questa non è stata l’unica sfida.

Per un regista teatrale rappresentano una sfida i classici greci, Shakespeare e Cechov. I primi perché hanno inventato il Teatro; il secondo perchè rappresenta la rifondazione del Teatro da parte degli elisabettiani, e Cechov perchè è il padre del realismo del XX secolo.  La sua scrittura  coincide con la nascita della psicoanalisi di Freud. L’attore deve lavorare sul personaggio e su se stesso. È il metodo Stanislavskij. Solo interpretando Cechov un attore può capire se ha talento. Di Cechov nel 1983 alla Schaubuhne mettemmo in scena “Le Tre Sorelle” che ottennero grande successo a Parigi e successivamente a Mosca, dandomi la possibilità di iniziare una collaborazione con la produzione russa. Era il 1989 e con la Perestroika di Michail Gorbaciov in Russia qualcosa era cambiato. Dello stesso anno è la rappresentazione del “Il giardino dei ciliegi”. Dopo Cechov ci avvicinammo alla tragedia con “Le Baccanti” di Euripide, che era ambientato in un ospedale psichiatrico, per via della perdita della razionalità di  donne che si erano votate al rito bacchico. Ci fu un percorso laboratoriale lunghissimo per Shakespeare’s Memory. Eravamo alla ricerca di testi e spazi nuovi. Anche l’Orestea  di Eschilo fu una sfida per la miriade di traduzioni che presentava e la traduzione di un testo classico è fondamentale per interpretarne i contenuti. Ad oggi la mia  traduzione risulta essere filologicamente corretta.

  • Dopo che lasciò la Schaubuhne, nel 1992 è stato nominato direttore della sezione teatrale del Festival di Salisburgo, carica che ha mantenuto fino al 1997. In Italia ha diretto nel 1990 Tito Andronico di Shakespeare e nel 1996 Zio Vanja di Ceckov. Vanta anche una produzione di opere liriche. Il Faust di Goethe, messo in scena in  7 giornate in occasione dell’Expo di Hannover del 2000; Il Gabbiano di Cechov nel 2003; Troilo e Cressida di Shakespeare nel 2006; Elettra di Sofocle nel 2007.

Del Festival di Salisburgo mi piace  ricordare la messa in scena nel 1993 di Giulio Cesare, che faceva parte di una trilogia shakespeariana, da me allestita, che comprendeva Antonio e Cleopatra con la regia di Peter Zadek e Coriolano  con la regia di Warner. Importanti produzioni italiane sono state anche  Pentesilea di Heinrich von Kleist nel 2002, e Medea di Euripide nel 2004, che hanno avuto tournèe italiane ed estere. La prima oltre al Teatro Greco di Siracusa è stata rappresentata ad Epidauro in Grecia. In versione estiva a Carnuntum in Austria, in versione invernale in tutta Italia. Medea oltre al Teatro Greco di Siracusa  ad Epidauro. Sempre nel 2002 ci fu la maratona teatrale de “ I Demoni” di  Fedor Dostoevskij della durata di dodici ore, durante le quali il pubblico non restava mai seduto per più di un’ora e un quarto. Si aveva l’impressione che quasi si fondesse  con i protagonisti. Con tournèe italiana oltre che a Vienna, Parigi, Atene e New York, sempre sold out.

  • Il suo lavoro spazia dai classici, alla drammaturgia contemporanea, alla lirica, in una continua tensione fatta di ricerca, confronti, che non conosce barriere spaziali e temporali, offrendo riscritture che attualizzano il Teatro , non snaturandolo nello stesso tempo.

Creatività, tecnica, innovazione: quali sono le qualità di un “bravo regista”? 

Il regista deve conoscere il testo. Deve leggerlo e rileggerlo. Lo legge, lo capisce, poi lo rilegge e non lo capisce. Quindi lo deve rileggere ancora e ancora. È fondamentale avere una buona preparazione di base. Nel mio periodo giovanile mi sono creato  una “biblioteca interna” e un “ museo interno”. Il primo grazie allo studio, l’altro grazie ai viaggi. Non sono contrario alla innovazione nel Teatro, purchè il regista non snaturi l’interpretazione, la comprensione del testo. Se il testo è di Cechov, è Cechov che parla, che dirige, che si deve portare in scena. Innovare non vuol dire portare in scena l’io del regista. Anche la musica i costumi possono essere innovativi, ma quanto basta a veicolare il contenuto del testo. Poi di  fondamentale importanza  è la scelta dell’attore, perché è quella che fa  la differenza.

  • Perchè i giovani non vanno a Teatro?

Da sempre il Teatro è stato condiviso da pochi, diciamo pure che è sempre stato di nicchia. Per attirare i giovani bisogna agire e sensibilizzarli a scuola. Questa deve farsi promotrice e veicolarne i valori attraverso la storia del Teatro.   

  • Qual è il suo rapporto con il cinema?

Mi piace, ma il cinema è creazione di qualcosa. Io non creo ma interpreto un testo. Io cerco lo stile di Cechov, di Shakespeare, di Beckett, perché ognuno ha il suo.

  • Ha avuto successi ma anche porte sbattute in faccia come i licenziamenti. È colpa del suo carattere?

Irrigidisce le mascelle e mi punta con i suoi occhietti.

Purtroppo nel tempo mi sono guadagnata la nomea di “persona difficile”. In realtà  mi sono sempre battuto per la dignità e la qualità dei miei spettacoli e della mia compagnia. Per difendere le mie idee e per la richiesta di budget, che sono sembrati eccessivi, ho subito i licenziamenti. In Italia, dove tutto è più complicato, mi sono rifiutato di fare il direttore artistico di un Teatro, perché ho chiesto un budget  che non  mi è stato assicurato.

Le guance tondeggianti che si gonfiano inaspettatamente, le dita che giocherellano con qualcosa che ha tra le dita, gli occhietti che esplorano la stanza, gli danno guizzi di comicità. Glielo faccio notare.

Sono solo rimbambito, così mi dicono. Ho 86 anni.

Scoppiamo a ridere e godo di quella momentanea complicità con un personaggio così inafferrabile.

  • Cosa l’annoia  e cosa la diverte?

Io mi annoio tanto e nello stesso tempo mi diverto. Mi succede nella mia proprietà  dove coltivo cereali, mi annoio e mi diverto.

  • Se non avesse fatto il regista che mestiere avrebbe fatto?

L’ingegnere. Mi piace montare e smontare motori .

  • Cosa pensa della violenza di genere?

Penso che sia triste. Le donne sono il futuro. L’uomo  ha consapevolizzato questo e reagisce con la violenza. Non capisco lo stupro. Come si possa godere se la donna non è consenziente.

  • Cos’è l’amore?

È una cosa complicata, da far paura. Quando ero giovane le donne mi spaventavano, probabilmente a causa  del cattivo rapporto  che ho avuto con mio padre. L’amore nella vita ha un ruolo determinante, e non è solo quello che si instaura con una donna. È amore anche quello che si vive all’interno della compagnia durante i mesi in cui si lavora insieme. Si condivide il cibo, il lavoro, lo stare insieme, come una famiglia. Peccato che duri poco. Finito il lavoro, la compagnia si scioglie. In Italia è così. In Germania è diverso perché, come ho spiegato prima, i contratti comprendono periodi più lunghi e i vincoli diventano  più  duraturi.

  • Quali sono i suoi prossimi passi

Nel 2024 saremo in tournèe  con “Crisi di Nervi” coprodotto dal Teatro Biondo di Palermo e il Teatro Menotti di  Milano. Sono tre atti unici di Cechov “ L’orso”,”I danni del tabacco” e “ La domanda di matrimonio”; un’ora e quaranta di spettacolo, che avrà come protagonista l’attrice Maddalena Crippa. Si tratta di tre intensi e brillanti ritratti umani. Cechov, dopo l’insuccesso delle sue prime opere,  si era allontanato dal teatro drammatico per dedicarsi al” vaudeville”, da cui sarebbero sbocciati i suoi successivi capolavori.    

Si è fatto tardi. Deve raggiungere la moglie Maddalena Crippa al Teatro Tina Di Lorenzo, dove è di scena con  “Il compleanno” del premio Nobel per la letteratura Harold Pinter. Una commedia che si rifà al teatro dell’assurdo di Samuel Beckett, i cui personaggi, apparentemente normali, vivono l’attrito, sapientemente  creato dal regista che è per l’appunto  Peter Stein, tra ciò che si vive  all’interno delle mura domestiche, e la minaccia dell’imprevisto pericolo proveniente dall’esterno.

Ripercorro la stessa strada dell’andata. Sbircio la cattedrale barocca, illuminata dalle luci della sera. Avverto una sensazione di vuoto. Sento già la mancanza di un personaggio così unico che si starebbe giorni interi  ad ascoltare.

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6 Luglio 2024
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