L’autrice vive a Milano ed è docente di scrittura creativa e poesia. Tiene laboratori di scrittura creativa e poesia in comunità e centri di riabilitazione psichiatrica. I suoi allievi hanno un’età media tra i trenta e i quarant’anni.
«Il viaggio più utile lo fa chi riesce a restare», chi resta anche quando altrove è più facile è colui che riesce a guardare le cose in maniera più chiara e più nitida ed avere uno sguardo più ricco rispetto a chi non fa altro che fuggire e scappare e poi vede tutte le cose annebbiate”.
Che cos’è l’assenza? E’ la mancata presenza o lontananza da un luogo in cui uno dovrebbe trovarsi o si trova abitualmente. Se a mancare è uno dei genitori, in questo caso la madre, il dolore è immenso e ci si continua a chiedere il perché della scelta. E’ quello che succede ad Agata la protagonista che a soli tredici anni non si spiega il perché della fuga fino ad arrivare a colpevolizzarsi ed a considerarsi un errore, addirittura un errore di quelli che la Maestra segna con la matita rossa, un errore gravissimo. Il vuoto la porta ad abbuffarsi di cibo appena la madre scompare e da grande si accompagna a uomini che non garantiscono la loro presenza per sempre.
L’autrice ha una scrittura leggera che penetra nell’ animo e nel cuore!
Oggetto del romanzo è la ricerca di un amore mancato, perché?
Perché la vita di Agata, l’editor quarantenne che vive nella China Town milanese, è segnata dall’abbandono della madre. Infatti, quando questa ha 13 anni la mamma se ne va senza dare spiegazioni e quindi fondamentalmente la lascia con questo vuoto, a cui lei tenterà in ogni modo di dare una forma, un nome, una spiegazione. È un amore mancato perché non è mai riuscito a viverlo. Vediamo dai racconti di Agata che era una madre assente nella sua presenza: troppo concentrata a rispondere ai propri bisogni, alle proprie mancanze quindi non aveva gli occhi per la figlia e ad un certo punto la madre se ne va. Tutta la storia di Agata è la ricerca ossessiva di colmare un vuoto e lo fa in maniera disfunzionale: attraverso un rapporto sballato con il cibo (mangia troppo o troppo poco) o attraverso delle relazioni sentimentali che ricalcano un po’ l’intermittenza materna, uomini che non garantiscono una presenza solida.
Lei si lega sempre a uomini sfuggenti, è un po’ strana questa cosa perché di solito quando non si vive il rapporto con il papà magari si fanno queste cose invece lei con l’abbandono della madre comincia ad avere tanti uomini ma sempre dello stesso genere…
Sì esatto, questo nasce dal cercare di sanare l’abbandono originario. Agata si sente abbandonata dalla madre e la sua sfida è “trovo uomini che tendono ad abbandonare cercando di tenerli” quasi a voler vincere questa sfida che non sono riuscita a vincere con mia mamma. Questo è il motivo per cui cerca uomini che fanno fatica a legarsi a lei o comunque garantirle una presenza. Come per dire «se non ce l’ho fatta con mia madre posso farcela con Samuele e se ce la faccio con lui vuol dire che io non sono così sbagliata come mia madre mi ha fatto credere andandosene». Di fatto, quando si viene abbandonati dalla propria madre il rischio è quello di sentirsi un errore, come quelli che vanno tolti dalla pagina altrimenti una storia non viene letta volentieri. Angela spera in qualche modo di sbagliarsi, da qui nasce la sfida di andare verso uomini che non garantiscono la presenza per vedere se con loro riesce e può considerarsi una persona amabile. L’errore poi è affidare il valore di sé al giudizio di un altro, o peggio, al comportamento di un altro “se uno mi tratta bene, valgo sennò no”. Da qui scatta il meccanismo della dipendenza dalla quale lei incappa: la dipendenza affettiva dal cibo.
Lei comunque vuole colmare la carenza affettiva con il cibo, però sviluppa un rapporto morboso e non un rapporto sano…
Tutto si concentra su questo vuoto che lei sente all’interno di sé, che infatti è argomento centrale del romanzo. Con il cibo lei ha questo doppio gioco caratterizzato da momenti in cui ingurgita quello che trova sottomano, per cercare di riempire, cancellare e sconfiggere il vuoto; oppure cerca di essere ancor più vuota del vuoto quindi non mangiando. Ci sono queste due modalità che lei mette in atto e andrà avanti così finché non farà di questo vuoto qualcosa di diverso, cercando di organizzarlo e dargli una forma scrivendo a sua madre una lettera – romanzo in cui cercherà di capire che fine ha fatto questa figura. È proprio parlando alla madre (attraverso la lettera) che piano piano il vuoto prende una forma, una consistenza ed una storia, avvicendandosi e finendo di essere un vuoto. Un po’ come quando un bambino sente un momento di smarrimento ed il genitore gli dice “ti racconto una storia” perché sa bene che una storia riempie il vuoto rendendolo narrazione.
La storia è completamente inventata oppure si è riferita a qualche fatto vero qui e lì?
Il fatto vero nasce da un rapporto complesso con mia madre, che non se n’è andata quando avevo 13 anni ma avevamo un rapporto basato sui vuoti e sulle assenze, per una serie di vicissitudini familiari. Dopodiché l’altro tratto autobiografico è quello legato alla parola come strumento che mi ha permesso di organizzare e gestire le mie paure ed i miei mostri.
Il titolo invece?
I passi di mia madre perché in qualche modo quello che cerca di fare è ritrovarsi. Agata è una persona che si è persa in questo loop legato agli uomini ed al cibo e per ritrovarsi deve tornare sui passi della madre per trovare l’origine, di colei che l’ha messa al mondo. Tornando sui passi della madre torna sui passi di sé stessa. È proprio cominciando a dare del “tu” alla madre, a rivolgersi a lei, come se si rivolgesse a sé stessa. Infatti, anche se nella forma della lettera quando si scrive e c’è un tu davanti, essendo una forma narrativa talmente intima, in primo luogo, si sta parlando a sé stessi. Quindi lei parlando alla madre si mette davanti alle sue miserie, alle sue paure e alle sue forze, ricostruendosi gradualmente.
Che vendite ha avuto il libro?
Noi abbiamo fatto 3 ristampe attualmente, abbiamo avuto la candidatura al Premio Strega e ci sono state diverse recensioni su alcune testate. È stato accolto bene soprattutto dal pubblico femminile. Ho notato infatti che molte lettrici si sono riconosciute aldilà della storia di Agata con il suo rapporto con il vuoto. Da ciò evinco che tantissime persone oggi hanno a che fare con questa assenza a cui non riescono a dare un nome che si trasforma in qualunque cosa: un luogo fertile per le paure. Dal mio punto di vista dobbiamo cercare il modo e la maniera per organizzare questo vuoto e dargli delle forme. Può essere la scrittura, la pittura, la musica o la lettura però il potere dell’arte penso sia abbastanza salvifico in questo nostro periodo storico
Non partecipa al premio Strega…Cos’ha provato?
Il Premio Strega c’è a luglio, hanno già nominato la dozzina io non sono dentro, come si sa è sempre molto complesso, quest’anno eravamo più di 60 candidati quindi era davvero dura. Però devo dire che sono contenta della candidatura avuta e che conservo come un dono che mi è stato fatto da Lia Levi, che ha pubblicato un sacco di libri ed ha più di 90 anni quindi per me ha un valore importante.
Vorrei concludere con una curiosità, che differenza c’è tra bella scrittura e buona scrittura?
Questa è una cosa che ha scritto Lia Levi durante la candidatura al Premio Strega che mi ha fatto molto piacere. Dal mio punto di vista la bella scrittura è quella che cerca di stupire, quella che mostra i muscoli per far vedere che belle parole usa o come si descrive bene la realtà come per abbellirla e nascondere una miseria che però è anche la forza della realtà che abbiamo davanti.
La buona scrittura invece è quella che ti racconta la miseria se c’è da raccontarla e ti racconta la bellezza se si deve raccontare. La buona scrittura è quella che mette le cose belle e le cose brutte sullo stesso piano, non eliminando le cose brutte per ingraziarsi il lettore ma gliele mette davanti perché esistono ed è la verità.