Un convegno per il 70° anniversario del bombardamento del porto “Bari racconta: veleni di guerra di ieri e di oggi. 2 dicembre 1943 – 2 dicembre 2013”. Al tavolo anche Vito Antonio Leuzzi (storico), Giorgio Assennato (direttore Arpa Puglia), Alberto Breccia Fratadocchi (cons. scientifico dell’Organizzazione mondiale per il disarmo chimico). Per alcuni decenni seguenti l’attacco – è emerso dal dibattito – furono numerosi i casi di contaminazione di pescatori baresi a causa degli ordigni d’iprite inesplosi che, ormai corrosi, rilasciavano il loro contenuto. Negli ultimi anni tali episodi si sono diradati, ma la bonifica non può essere considerata completa. Leuzzi, autore del volume “Inferno su Bari. Bombe e contaminazioni chimiche 1943-1945”, ricordando gli avvenimenti bellici e come si giunse a tracciare questa storia, ha evidenziato il legame tra memoria e prevenzione. Il contenuto della John Harvey era classificato come top-secret e solo pochi ufficiali della nave, e tra questi il comandante, ne erano a conoscenza. Fortunatamente il vento da terra allontanò verso il largo la nube tossica generata dalle esplosioni ma l’iprite, che si era dispersa come miscela oleosa nelle acque del porto, contaminando gli indumenti, non risparmiò i marinai e i portuali che avevano trovato rifugio nelle acque del porto e i soccorritori che si erano adoperati per trarre in salvo i superstiti. Molti intossicati morirono a causa della non conoscenza, da parte del personale medico preposto al soccorso, dell’agente intossicante a cui le vittime erano state esposte; in particolare avvolgere in coperte i colpiti ottenne l’effetto di tenere più a lungo e in maggior quantità l’iprite a contatto con la pelle. In conseguenza di questo incidente, fu creato dagli alleati un programma di ricerca segreto sugli effetti dei gas sull’uomo.
A studiare l’effetto dell’azotoiprite furono chiamati due scienziati dell’università di Yale, Louis Goodman e Alfred Gilman. Studiando gli effetti mielotossici selettivi che si erano riscontrati su sopravvissuti agli effetti vescicanti dell’iprite a Bari, (effetti per altro già individuati nel 1919 da Edward ed Helen Krumbhaar, una coppia di patologi americani, su pochi reduci intossicati dal gas dopo il suo massiccio impiego bellico nella prima guerra mondiale e che, pubblicati su una rivista medica secondaria, passarono inosservati agli oncologi del tempo), diedero il via ad una sperimentazione controllata dapprima su modelli animali e poi su alcuni malati di neoplasie di origine linfatica. Riscontrarono remissioni significative, anche se di breve durata, ma i risultati non poterono essere pubblicati se non dopo la fine della guerra, per il vincolo di segretezza che copriva il programma militare. Fu comunque il primo tentativo di terapia antitumorale attraverso un approccio farmacologico a poter vantare un certo grado di successo, e viene per questo considerato l’atto di nascita della moderna chemioterapia.
È il 2 dicembre 1943, quando, alle 19 e 25, una flotta di 105 bombardieri della Luftwaffe (appartenenti ai Kampfgeschwaders 30, 54 e 76) attacca il porto di Bari. Sono ancorate oltre 40 navi alleate, 17 affondano: 5 americane, 4 inglesi, 3 norvegesi, 3 italiane, 2 polacche, fra queste c’è la John Harvey battente bandiera americana, la cui stiva è piena zeppa di iprite (un letale gas venefico che trovò il suo primo utilizzo bellico sui campi di battaglia della Grande Guerra 1914-18). Mille le vittime tra civili e militari. Duecentocinquanta i civili baresi, oltre ottocento i militari ricoverati con ustioni e ferite. Gli intossicati dall’iprite sono 617, ricoverati a Bari o trasportati in altri ospedali militari dell’Italia Meridionale o del Nord Africa. Ottantaquattro muoiono nel capoluogo pugliese. E’ colpito da irritazioni agli occhi e ustioni anche il personale sanitario. Nel rapporto redatto dal colonnello Stewart F. Alexander della sanità militare degli USA, inviato a Bari nei giorni successivi, datato 27 dicembre 1943, le ustioni sono classificate per causa N.Y.D. – not yet diagnosed, – non ancora diagnosticata. Secondo il Maggiore dell’U.S. Air Force Glenn B. Infield, autore del libro “Disaster At Bari”, fu lo stesso primo ministro inglese Winston Churchill a disporre che non fosse fatto cenno all’iprite nei documenti che riguardavano il disastro di Bari. Solo molti anni dopo la fine del conflitto i governi inglese e statunitense hanno ammesso la presenza di armi chimiche nella stiva della John Harvey. Samuel Eliot Morison definisce l’attacco come il più distruttivo, per gli alleati, dopo Pearl Harbour, ma, in verità, è il più grave episodio di guerra chimica del secondo conflitto mondiale. “Il deficit di memoria fu colmato 20 anni fa, durante un convegno alla Provincia di Bari – hanno raccontato Leuzzi e Assennato – con documenti ritrovati in archivi statunitensi, mentre quelli italiani chiusero le porte alla ricerca storica. Un grande contributo – ha sottolineato Leuzzi – fu dato dagli enti di bonifica attraverso le registrazioni degli interventi”.
Nelle stesse ore in cui a Bari si sono svolte le iniziative per la commemorazione del disastro chimico, Ahmet Uzumcu, direttore dell’OPAC, ha affermato che sono in corso le valutazioni delle candidature di 35 compagnie private, che si sono proposte per portare a termine l’eliminazione completa dell’arsenale chimico siriano entro la metà del 2014. Nell’immediato, invece, l’opzione che si sta facendo strada per tenere in piedi il piano, faticosamente concordato con la Siria grazie alla mediazione della Russia, è quella avanzata dagli Stati Uniti, che hanno proposto di concludere il lavoro sulla nave della marina americana MV Cape Ray. Il programma consisterebbe nella messa in funzione, a bordo della nave, di un impianto di distruzione cellulare degli armamenti, che utilizza l’acqua per diluire le sostanze chimiche rispettando i necessari standard di sicurezza.Tecnicamente il processo si chiama idrolisi, ossia una reazione chimica in cui le molecole vengono scisse in due o più parti per effetto dell’acqua producendo una reazione inversa alla condensazione. Secondo le stime, il procedimento dovrebbe produrre circa 7,7 milioni di litri di acque di scarico che, successivamente, verrebbero imballati in 4mila contenitori, il cui livello di tossicità può essere indicativamente paragonato a quello di molti altri comuni scarti industriali.
Gli interrogativi sul processo di distruzione
Dunque le circa 1.300 tonnellate di sostanze tossiche raccolte in questi mesi dall’OPAC nei 22 dei 23 siti dichiarati dal governo siriano (l’ultimo era stato abbandonato da tempo), comprese circa 30 tonnellate di gas mostarda, potrebbero finire sulla MV Cape Ray ed essere processate in tempi relativamente brevi. Oltre a questi aspetti tecnici, che teoricamente non dovrebbero presentare particolari insidie, vi sono però delle questioni logistiche da affrontare. Al momento ciò che si sa per certo è che i materiali e i contenitori che verranno utilizzati per l’imballaggio delle sostanze chimiche sono arrivati in Siria dal Libano. Una volta imballato, il carico (in totale circa 200 contenitori) dovrebbe essere trasportato entro un paio di settimane in un porto del Mediterraneo, probabilmente uno tra Latakia e Tartus. E qui sorge il primo problema. Poiché nessuno sembra disposto a scortare il carico fuori dalla Siria, considerati i livelli minimi di sicurezza a causa della guerra civile in corso, si sta facendo strada la possibilità che a farsene carico alla fine potrebbe essere lo stesso esercito siriano. Questa ipotesi presenta, tuttavia, dei pericoli non sottovalutabili. Sono in grado le truppe di Assad di scortare i contenitori dai siti fino ai porti? I ribelli accetteranno di non sfruttare l’opportunità di attaccare i loro rivali? Come la comunità internazionale e l’ONU pensano di poter garantire il pacifico trasferimento di materiale così pericoloso in un Paese in guerra civile da più di due anni? Un altro interrogativo riguarda poi la MV Cape Ray e l’opportunità che sia questa nave ad attraccare nel porto stabilito per caricare il materiale tossico. Per evitare possibili attacchi, qualcuno ha proposto di utilizzare piccole navi per traghettare il carico fuori dalle acque siriane e poi consegnarlo agli americani. Questa potrebbe essere una soluzione, nella speranza, ovviamente, che tutto il risultato del lavoro compiuto dall’OPAC in questi mesi arrivi intatto al momento della spedizione. Possibilità che rischia però di assottigliarsi ogni giorno trascorso dalla comunità internazionale senza arrivare a una decisione definitiva.