Riprendiamo il “cammino” iniziato la settimana scorsa.
Rimettiamoci sulla strada che va da Gerusalemme a Emmaus, con i discepoli disincantati e il misterioso accompagnatore.
Nell’articolo precedente ci siamo arrestati per via, nel momento in cui il “forestiero” si accosta ai due viaggiatori e li interroga sui loro discorsi.
In quel frangente, abbiamo visto di quali sentimenti contrastanti sia capace l’animo umano: da una parte la conoscenza delle Scritture e la testimonianza di spettatori credibili, dall’altra la disillusione che fa crollare ogni certezza come un castello di carte.
“Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele (…) ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti” (Lc 24,21.22).
Attenzione al termine che usano: sono SCONVOLTI.
Il dizionario dice che “sconvolgere” significa mettere sottosopra, agitare fortemente tanto da provocare disordine e scompiglio, un po’ come un terremoto o un’esplosione sconvolgono il terreno. In senso figurato, questo termine si avvicina al concetto di “crisi”: essa, infatti, scuote mente e cuore – cioè raziocinio ed emozioni – provocando un disagio fisico e psicologico.
Sconvolgere significa quindi turbare profondamente (ovvero fino alle fondamenta), ponendo il soggetto in uno stato caotico.
Ne deriva che i nostri protagonisti non sanno più che pesci pigliare. Tutte le loro certezze, acquisite con l’educazione e consolidatasi in anni di studi, si sciolgono come neve al sole dinanzi alle aspettative deluse.
Chi di noi non si è trovato, un giorno o l’altro, in una situazione del genere?
Chi non si è sentito perso nel momento in cui le sua attese sono state disilluse?
Chi non ha provato il gusto amaro della disperazione?
Eppure questo è un passaggio obbligato; anzi, è una vera e propria benedizione. Perché?
Forse non tutti conoscono il significato della parola CRISI. Questo termine non rimanda, come molti credono, al concetto di sofferenza, bensì a quello di OPPORTUNITÀ.
Letteralmente, questa parola di radice greca significa “scelta, decisione”.
Ora, la crisi è quell’esperienza che ci permette di fare il PASSAGGIO, lo stesso che fece Cristo morendo e resuscitando: passare dalla morte alla vita, dall’idea all’esperienza.
I discepoli, imbevuti di dottrina e di attese personali, dovevano assolutamente entrare nel “mood” esperienziale.
Per quale motivo? Semplice: smettere di vivere nell’illusione per ancorarsi alla realtà. Una realtà che spesso è diversa da come la immaginiamo ma non per questo peggiore, anzi.
Il nostro pensiero è quasi sempre limitativo.
Nel momento in cui desideriamo una determinata cosa, convinti che non ci sia nulla di meglio, in realtà ci precludiamo l’accesso a realtà migliori. Questo accade perché basiamo la formulazione dei nostri desideri su quanto conosciamo (o pensiamo di conoscere), inconsapevoli del fatto che esistono realtà più grandi di quanto possiamo immaginare o anche solo sperare.
Il proverbio: “Si chiude una porta, si apre un portone”, è sempre valido.
L’esperienza “sconvolgente” dei discepoli di Emmaus, è quella della la porta che chiude fragorosamente i battenti ma che apre loro possibilità che non osavano nemmeno sperare: recatisi a Gerusalemme per vedere un morto, si ritrovano a camminare fianco a fianco col Risorto.
Il problema, adesso, è come riconoscerlo.
Come il Cristo, anche loro devono affrontare un lutto: non fisico ma mentale, il più difficile di tutti.
I greci hanno coniato una parola estremamente adatta a questo proposito: METÀNOIA.
Questo termine significa letteralmente «cambiar parere» ed indica un radicale mutamento nel modo di pensare, di sentire e di giudicare le cose. Nella teologia cristiana, indica
il totale capovolgimento che si deve operare in chi aderisce al messaggio di Cristo, quella che comunemente viene chiamata CONVERSIONE.
La conversione altro non è che un cambiamento trasformativo del cuore, che presuppone la messa in opera di una vera e propria riforma (ri-formare) dei valori etici, culturali, politici e sociali correnti. Le “beatitudini evangeliche” (Mt 5,1-12) ne sono un esempio.
Cambiare mentalità e conformarsi concretamente a tale nuovo ordine di pensiero, è la cosa più difficile che ci sia al mondo.
Lasciare il vecchio per il nuovo, pensare e agire in maniera diversa e autonoma rispetto alla massa, non è cosa da meno di morire e resuscitare.
Ma è qui, in questo preciso momento che accade il miracolo: i cocci della nostra esistenza diventano le fondamenta del nuovo edificio.
“Egli disse loro: «Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?» E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui.” (Lc 24,25-27)
“Non bisognava?”
Gesù – ancora anonimo agli occhi dei due viandanti – esprime un concetto forte: quello di NECESSITÀ.
Era necessario che il Cristo soffrisse così come è necessario che i suoi discepoli siano disillusi. E li invita a far tacere il rumore delle emozioni per far emergere la voce della ragione: “Cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui”.
Gesù non parla a caso, non perde tempo in elucubrazioni mentali ne in giravolte psicologiche per convincere chi gli sta di fronte. No, egli rimanda la persona a se stessa, alle sue conoscenze e convinzioni. Qui non si parla di proselitismo, ma di CONSAPEVOLEZZA e di autodeterminazione.
Il Cristo spiega, nel dettaglio, riportando alla coscienza quanto la delusione aveva ormai sotterrato.
Egli fa opera di EDUCAZIONE, nel senso etimologico del termine: dal latino educĕre, “trar fuori”.
Il “salto quantico” dei due discepoli – che permetterà in seguito il riconoscimento, nel viandante misterioso, della figura del Cristo – è proprio il passaggio dall’insegnamento all’educazione. In altre parole, dall’indottrinamento che ha immesso in loro idee altrui, al riconoscimento “vibrazionale” di una verità che va cercata dentro di sé.
(a seguire)