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IL CIELO NEI PASSI

“Per grazia di Dio sono un uomo e cristiano, per azioni gran peccatore, per vocazione pellegrino della specie più misera, errante di luogo in luogo. I miei beni terreni sono una bisaccia sul dorso con un po’ di pane secco e, nella tasca interna del camiciotto, la Sacra Bibbia. Null’altro”.

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E’ questo uno degli “incipit” o attacchi più famosi della letteratura di ogni tempo, inizio semplice e solenne di quel risplendente poema, fiaba poetica e grande trattato spirituale, tramandato fino ai nostri giorni col titolo “Racconti di un pellegrino russo”.

Stampati la prima volta a Kazan nel 1881 da un abate del monastero di San Michele Arcangelo, che aveva ricopiato un manoscritto veduto molti anni prima in un monastero del Monte Athos, questi racconti anonimi danno voce all’anima russa, innamorata di Dio, quale è espressa attraverso una vicenda secolare.

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Il pellegrino russo percorre risolutamente steppe e foreste, città e villaggi, nella speranza che esista un luogo dove un uomo sapiente o ispirato possa svelargli il significato di alcune parole dell’apostolo Paolo, che probabilmente racchiudono il senso della vita. Questo giovane pellegrino russo, dal cuore di fanciullo, appartiene a quella specie di uomini oggi in via di estinzione, che con termine francescano potremmo definire “folli per amore”.

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Le società degli ultimi anni, così orgogliose del progresso tecnico-scientifico e dello sviluppo economico, hanno imposto un modello di razionalità umana e di razionalizzazione sociale che, alla lunga, si traduce in un regresso delle facoltà più autenticamente umane della persona.

Erich Fromm si lamentava di questa “società completamente meccanizzata”, che ha per scopo la massima produzione materiale e il massimo consumo. “Alla fine – avvertiva Max Horkheimer – sta una società completamente amministrata, automatizzata, perfettamente funzionante, dove il singolo può, sì, vivere senza preoccupazioni materiali, ma non conta più nulla”.

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Il rischio del progresso è che “finisca per dissolversi persino l’idea dell’anima, poiché essa appare irrilevante al cospetto dell’universo”.

Dinnanzi a tali pericoli, anche in ragione della permanente tragedia pandemica, occorre richiamare l’uomo all’identità immutabile della sua natura: essere finito che non può rinunciare al concetto di infinito.

In questa situazione, nella quale gli uomini tutti rischiano di essere ridotti a numero, affaticati senza senso, agitati, confusi e nevrotici, è nuovamente richiesto un “supplemento d’anima” ed è nuovamente richiesta una rinascita interiore.

E’ urgente ricuperare lo spirito del pellegrino russo, il primato dell’amore e della preghiera, il senso del gratuito, lo stupore poetico, la suggestione estetica.

L’itinerario, il viaggio non è solo “il trasferimento da un luogo all’altro” ma è anche oltrepassare i limiti del noto, imbattersi in nuovi aspetti della Verità.
Allora si capisce come ci siano frenetici viaggiatori “immobili” e infaticabili amanti dell’altrove che non smettono di scoprire paesaggi ignoti e tesori nascosti proprio perché radicati nell’humus in cui vivono.
Ogni viaggio termina dove è iniziato, o meglio, non termina mai, ma procede di inizio in inizio… Non finiremo mai di cercare e la fine della nostra ricerca sarà arrivare al punto da cui siamo partiti e il conoscere quel luogo per la prima volta.
Un circolo vizioso, dunque?
No, se si riconosce con stupore rinnovato che il punto di partenza non siamo noi ma è Dio in noi. Allora il viaggio è un progressivo penetrare nella profondità dei misteri di Dio attraverso una sempre più consapevole conoscenza di noi stessi e dei nostri limiti.

Dobbiamo donare agli altri una comunicazione d’anima e aprire loro spazi d’interiorità.

Occorre farsi piccoli, tornare al primato della fantasia, opporsi alle mitologie e alle idolatrie della società e delle mode con la fantasia delle fiabe e delle parabole evangeliche.

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Occorre affidarsi al senso di abbandono in Dio, di utopia, di sogno che hanno i bambini. Riscoprendo la fraternità, la tenerezza e un pizzico di follia.

Occorre amare con il senso umile e povero, pudico e attento, accogliente e gioioso che è proprio di chi ama davvero e dona senza riserve. Dobbiamo donare agli altri come se fossimo noi a ricevere un dono, sapendo che è meglio dare che ricevere, conoscendo che non renderemo mai abbastanza per quel che a noi è stato donato, sperimentando nel dono la più profonda risonanza della gioia.

Ecco, soprattutto in questo tempo di preparazione al Santo Natale, aiutiamoci a perderci nella disponibilità, nella generosità di chi sa di esistere da sempre soltanto come un pensiero d’amore: perdiamoci nella Parola!

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La parola che parla, la parola che nutre il silenzio, che assomiglia a un vento leggero: si fa notare, ma entra discretamente, scende nel profondo. Non usa toni violenti. Non si impone con l’irruenza del fuoco. Non dilaga con l’irrefrenabile forza dell’acqua. Sussurra, accarezza, passa accanto, ma poi scompiglia, capovolge, scombina, rigenera.
Scende in profondità, sospinge fino alla sommità: poi, ricomincia.
Accompagna, aspetta, riscalda.
Insegna a scrutare, permette di riconoscere, porta luce, ma lascia che ciascuno dia voce alla vita che porta in sé.
Non si sostituisce, non dà indicazioni, nemmeno risposte, ma suscita solo domande, curiosità e desiderio nuovo, fino a spingere al cammino, alla ricerca dell’inedito.
Non teme la solitudine, la Parola che alimenta il silenzio.

(Servizio fotografico realizzato da Marina Tarozzi)

Data:

10 Novembre 2021