E’ universalmente dimostrato che la nozione di razza non ha alcuna fondatezza . L’antropologia culturale ha, attraverso studi scientifici, dimostrato il valore etico e scientifico del riconoscimento delle pluralità umane in continua evoluzione e trasformazione, segnatamente in paesi, come l’Italia da sempre crocevia di culture e gruppi diversi. Proprio la diversità consente ai cittadini di sviluppare la capacità di conoscere, adattarsi e immaginare il proprio futuro.
Relativamente alla scienza medica il concetto di razza, come evidenziato nello studio (di cui riporto un estratto) del professor Massimo Sandal, rivela interessanti aspetti. New England Journal of Medicine (NEJM) ha dedicato una serie di articoli dedicati alle radici storiche delle diseguaglianze nella salute e dei pregiudizi razziali nella ricerca e nella pratica medica [1]
Scrive, infatti, Sandal che la medicina ha fornito supporto per il razzismo “scientifico” del XIX e XX secolo, fin da quando il medico Johann Friedrich Blumenbach pose le basi delle prime classificazioni razziali alla fine del XVIII secolo. La medicina è stata ripetutamente uno strumento di oppressione razziale: dalle surreali diagnosi di “drapetomania” per gli schiavi che volevano fuggire, alle sperimentazioni umane del nazismo, al famigerato esperimento di Tuskegee negli Stati Uniti o al Progetto Coast del Sud Africa dell’apartheid.
Questa relazione pericolosa non è finita. In società multirazziali come gli Stati Uniti, è evidente che esistono disparità negli esiti medici tra persone di diversa origine etnica: si registrano, infatti, differenze nei rischi di malattia, nei tassi di mortalità e persino nel modo in cui la medicina tratta i pazienti in base alla loro “razza”. Ma nella medicina persiste anche un pensiero razziale, se non razzista. Un esempio è il pregiudizio, ancora diffuso, secondo cui le persone nere sentirebbero meno dolore rispetto alle persone bianche, con conseguenze in termini di trattamento.
Negli Stati Uniti, il Paese occidentale dove in generale la riflessione su razza e razzismo è più vibrante, il rapporto tra razza e medicina è tornato al centro dell’attenzione dopo le proteste del 2020 seguite all’omicidio di George Floyd da parte della polizia. Questi eventi hanno spinto la comunità medica americana a riflettere sul legame tra razza e salute. L’equilibrio è sottile: si tratta di liberare la medicina dai residui razzisti che ancora persistono, ma anche di riconoscere se e quali effettive differenze bisogna considerare per diagnosi e terapie ottimali. Per quanto riguarda l’Europa, il dibattito sembra essere praticamente assente. Ci sono pochissimi dati e pochissimi studi sul tema, anche se diverse evidenze qualitative mostrano che sarebbe opportuno interrogarsi sul tema.
Tante facce, una razza
Sappiamo ormai che la razza non è un concetto biologico. È un dato ampiamente documentato che si riassume in: le popolazioni umane attuali non sono suddivise in rami distinti di un albero filogenetico. Tutta l’umanità è inserita in un continuum genetico multidimensionale, che non può essere suddiviso in modo netto senza ricorrere a confini estremamente arbitrari. Oltre l’80% della variabilità genetica umana si trova all’interno delle popolazioni invece che come differenza tra popolazioni con origini geografiche diverse. Somiglianze apparenti, come la pelle scura o chiara, sono in realtà adattamenti evolutivi alla latitudine, non una prova di vicinanza genetica. E infatti il colore della pelle è un tratto controllato da geni diversi. La “distanza genetica” esiste anche quando due persone condividono un’origine geografica su larga scala: basti pensare alla straordinaria diversità genetica presente in Africa, superiore a quella che esiste tra tutte le altre aree geografiche, tanto che si potrebbe affermare che le popolazioni non africane siano essenzialmente variazioni sul tema di quelle africane.
Dal punto di vista scientifico, però, resta comunque un 10% circa di variazioni genetiche più o meno fortemente correlate alla provenienza geografica che, come si vedrà, sono oggetto cruciale di discussione.
Razza come costrutto sociale
La razza però è del tutto reale come costruzione sociale. Dire che qualcosa è una costruzione sociale non significa sminuirne la concretezza o gli effetti: il denaro è un costrutto sociale, ma i suoi effetti sono, com’è ovvio, estremamente tangibili. Dal punto di vista medico, le esperienze legate alla razza, come le discriminazioni, il diverso status sociale ed economico, i fattori di stress accumulati durante l’infanzia, le abitudini culturali e persino il trattamento ricevuto nel sistema sanitario creano molte occasioni di disparità che sommate insieme possono influenzare significativamente la salute delle persone.
Le influenze negative del concetto di razza afferiscono a due categorie: razzismo strutturale, ovvero l’insieme di disparità sociali presenti nella struttura della società, e bias implicito, ovvero l’attitudine più o meno conscia dei singoli nei confronti di persone percepite come di razze diverse. Nel 2002, un rapporto dell’Istituto di Medicina degli Stati Uniti ha documentato oltre ogni ragionevole dubbio le disuguaglianze sistemiche e le barriere strutturali che contribuiscono alle disparità razziali nel sistema sanitario statunitense. In Europa le cose non sono molto diverse, nonostante la scarsità di dati renda difficile ottenere un quadro preciso.
Medicina di razza?
Nonostante la sua validità in ambito biomedico sia discussa ormai da molti anni, nella pratica medica la razza è ancora considerata un parametro su cui basare decisioni diagnostiche o terapeutiche, non molto diversamente dall’indice di massa corporea o l’età. Un database nel 2023, messo a punto da un gruppo di ricercatori dell’Università di Pittsburgh, negli Stati Uniti, ha raccolto “39 calcolatori di rischio basati sulla razza, 6 risultati di test di laboratorio con intervalli di riferimento basati sulla razza, una raccomandazione terapeutica basata sulla razza e 15 farmaci con raccomandazioni basate sulla razza”. (…)
Sulla base di questo tipo di dati, diversi medici e ricercatori hanno proposto di utilizzare comunque il concetto di razza come un’approssimazione – grossolana ma meglio di nulla – per tenere conto della diversità genetica, in attesa di comprendere meglio i reali determinanti sociali, biologici e genetici. Nel 2021 Akinyemi Oni-Orisan e altri medici afroamericani hanno argomentato sul New England Journal of Medicine a favore di questa idea. Mettere in gioco la razza sarebbe dunque un esempio di diversità di trattamento positiva, portando miglioramenti concreti nella salute delle popolazioni non bianche. Scienze sociali e genetica dovrebbero dunque collaborare per sviluppare curricula che siano al tempo stesso “antirazzisti e non antigenetisti […] La ricerca genetica, se condotta in modo responsabile, è di per sé antirazzista”, concludono Oni-Orisan e colleghi. (…)
Dalla medicina race based alla medicina race conscious
Viceversa, un numero crescente di specialisti e società di medicina desiderano eliminare ogni riferimento alla razza nel momento in cui si decidono diagnosi e trattamenti. Tenere traccia della razza, dunque, solo come costrutto sociale legato a discriminazioni sistemiche, non come categoria biologica: un approccio definito race conscious, “consapevole della razza”, in contrasto con una medicina descritta come race based, “basata sulla razza”. (…)
A volte, dati che apparentemente corroborano una differenza biologica possono scomparire o essere messi in dubbio da un’analisi più approfondita. Un esempio molto lampante è la relazione tra uso di tabacco e mortalità per tumore ai polmoni. Uno studio del 2006 ha riscontrato che tra le persone asiatiche che abitano negli Stati Uniti ci sono più fumatori (29,3%) che tra le persone nere (20,2%) – ma la mortalità per tumore ai polmoni è molto più elevata in questi ultimi (58,8 su 100.000 rispetto a 40,1 su 100.000). Cedere alla tentazione di ritenere questa una discrepanza dovuta a un diverso sfondo genetico è facile, ma gli autori dello studio stesso fanno notare che, almeno in parte, potrebbe derivare invece da differenze culturali. Per esempio: “È stato osservato che i neri inalano più nicotina per sigaretta fumata rispetto ai bianchi e, forse, subiscono una maggiore esposizione ai cancerogeni del tabacco. Il che può spiegare in parte i loro alti tassi di cancro ai polmoni, nonostante un basso numero di sigarette fumate al giorno.”
L’approccio race conscious sta prendendo piede a livello ufficiale. Per esempio, nel 2022 l’American Academy of Pediatrics ha rilasciato un policy statement molto netto contro la medicina basata sulla razza. Una decisione che ha avuto effetti concreti, come l’abolizione delle linee guida sulle infezioni delle vie urinarie nei bambini di età compresa tra 2 e 24 mesi che raccomandavano cure diverse per i bambini bianchi rispetto a quelli non bianchi. Queste linee guida si basavano su un algoritmo clinico che attribuiva un rischio teorico più basso di infezione ai bambini di colore, basandosi su ipotesi relative ad antigeni del gruppo sanguigno. (…)
Dalla razza all’ascendenza
Come detto, alcuni dati genetici variano effettivamente tra le popolazioni, il che ha portato a discutere il concetto di “ascendenza genetica”. L’ascendenza, a differenza della razza, è definita come la correlazione tra genealogia genetica e origine geografica. “Il test di ascendenza genetica comporta il confronto di un gran numero di varianti del DNA misurate in un individuo con le frequenze di queste varianti in popolazioni di riferimento campionate in tutto il mondo. (…)
La categorizzazione dell’ascendenza si confronta inoltre inevitabilmente con la mescolanza avvenuta nel tempo. Negli Stati Uniti per esempio è possibile distinguere geneticamente l’ascendenza delle persone identificate come bianche e come nere, ma solo nel senso in cui le persone bianche hanno in media una percentuale molto piccola di ascendenza africana, mentre le persone nere hanno una percentuale di ascendenza africana estremamente variabile; in altre parole, sono un insieme del tutto eterogeneo. (…)
La medicina evoluzionistica (…) potrebbe essere una chiave per arrivare a integrare correttamente la diversità genetica umana nella pratica clinica.
Ci vorrà ancora un po’ prima che la medicina riesca a liberarsi dalla razza e, allo stesso tempo, tenga correttamente conto della diversità umana. ‘Razza’ è un concetto rovente, che scotta comunque lo si prenda in mano. E mentre si cerca di eliminarlo, rientra da percorsi inattesi, come le intelligenze artificiali che tendono a rigurgitare le distorsioni presenti nei dati con cui sono state addestrate, inclusi pregiudizi razziali più o meno espliciti.
È plausibile, però, che prima o poi la razza debba essere abbandonata definitivamente. Nel tentativo di prenderla in considerazione per maggiore accuratezza, la medicina basata sulla razza rischia in realtà di diventare una medicina di imprecisione, affidandosi a una catalogazione arbitraria e confusa per afferrare divergenze reali. Una soluzione potrebbe venire proprio dalla medicina di precisione, capace di analizzare sul singolo paziente i fattori genetici di rischio invece di affidarsi alla correlazione statistica.
Anche qui però c’è da lavorare: gran parte degli studi di associazione genomica su larga scala sono stati condotti prevalentemente su individui di origine europea, limitando la capacità di individuare i veri fattori di rischio genetici. Le associazioni derivate da questi studi tendono a essere meno predittive per le popolazioni di ascendenza non europea. È necessario dunque tenere conto della diversità genetica legata all’origine geografica. Allo stesso modo – compito ancora più complesso – serve un programma di ricerca sugli impatti diretti e indiretti delle differenze sociali, culturali, economiche, ambientali e storiche.
In ultimo, ma non per importanza, il tema della razza è intrinsecamente politico e ideologico. Proprio questo potrebbe essere un ostacolo, osserva Guido Barbujani[2]: “Tra i medici, quando parlo di questo argomento, mi sembra che la differenza di atteggiamento non sia legata tanto alle loro specializzazioni o esperienze, quanto piuttosto alla loro ideologia. Questo non sorprende più di tanto, perché, in fondo, siamo tutti influenzati da pregiudizi personali. Tuttavia, è interessante notare quanto questa dinamica si manifesti in modo concreto. A mio avviso, questa divisione è particolarmente evidente in un momento storico in cui tutto, a livello globale, è fortemente polarizzato e le posizioni tendono a essere estremizzate. Di conseguenza, anche in ambito professionale, il peso dell’ideologia si fa sentire in modo significativo”.
Allo stato, va considerato che, seppure gli studi di genomica, hanno indotto gli studiosi ad abbandonare il concetto di razza ma a riconoscere che due persone, pur all’interno della stessa razza, possono essere molto diverse, il concetto di razza resta è ancora molto radicato in paesi come gli Stati Uniti dove, ad esempio, ai genitori che iscrivono i loro figli all’asilo viene richiesto di indicare a quale razza appartengono (essere “caucasici”, “africani americani”, “nativi americani” o “latinos” fa la differenza ( non biologica ) perché la dichiarazione di appartenenza a quelle razze considerate svantaggiate dal punto di vista sociale, consente il beneficio degli aiuti che permettono loro di accedere alle scuole migliori).
Fonti: Massimo Sandal, PhD. Il concetto di razza in medicina, ieri e oggi (Univadis , 26/12/2024 https://www.univadis.it)
[1]Jones DS, Hammonds E, Gone JP, Williams D. Explaining Health Inequities – The Enduring Legacy of Historical Biases. N Engl J Med. 2024;390(5):389-395. doi:10.1056/NEJMp2307312)
[2] Professore di genetica all’Università di Ferrara e ricercatore sulla g
Questo articolo avvia un dibattito rilevante e multidimensionale sull’inesistenza biologica del concetto di razza, offrendo spunti per un’analisi approfondita e originale. Esplorare questo tema comporta una riflessione accurata sulla tensione tra semplificazione e complessità nei modelli di categorizzazione umana. La persistente applicazione del concetto di razza in medicina, nonostante le evidenze scientifiche che ne smentiscono la fondatezza, appresenta un esempio emblematico di come le pratiche sociali e culturali possano influenzare le scelte scientifiche. In questo contesto, è decisivo adottare un approccio epistemologico critico, capace di discernere tra modelli euristici e bias strutturali, per evitare che categorie socialmente costruite vengano impiegate come strumenti di discriminazione travestiti da oggettività scientifica. La proposta di una medicina “race conscious”, in contrasto con la medicina “race based”, solleva interrogativi etici che meritano un’analisi accurata, anche attraverso il concetto di ingiustizia epistemica elaborato da Miranda Fricker e che si manifesta in due forme principali: testimoniale, quando il contributo di un individuo viene svalutato a causa di pregiudizi, ed ermeneutica, quando a un gruppo manca la capacità concettuale di comprendere o esprimere adeguatamente le proprie esperienze. In ambito medico, l’ingiustizia testimoniale si concretizza quando le esperienze dei pazienti appartenenti a minoranze etniche vengono ignorate, mentre l’ingiustizia ermeneutica emerge quando mancano gli strumenti concettuali necessari per interpretare correttamente tali esperienze. Tutto ciò evidenzia l’esigenza di integrare le scienze biomediche con le scienze sociali per sviluppare pratiche cliniche sensibili alla diversità culturale. Un ulteriore aspetto riguarda la necessità di rivedere il linguaggio scientifico; il passaggio dal concetto di “razza” a quello di “ascendenza genetica” implica una trasformazione epistemologica che richiede una comprensione più sfumata della ricchezza umana, sia dal punto di vista storico che biologico. È fondamentale evitare il determinismo genetico, concentrandosi sulla relazione dinamica tra geni, ambiente e cultura, riconoscendo la diversità come il risultato di interazioni complesse, anziché di divisioni rigide. Riflettere su come una nuova visione della diversità culturale possa contribuire a ripensare le basi della nostra società è essenziale.