Milioni di spettatori hanno atteso con intrepida ansia l’inizio del mondiale. Davanti ad un televisore, hanno esultato con viva gioia l’ingresso in campo dei calciatori della squadra che rappresenta la propria nazione. Anche gli italiani (un popolo caratterizzato da divisioni e varie frazioni) non sono stati da meno. Soprattutto gli italiani. Loro si aspettavano un mondiale encomiabile. Una vittoria da stampare nella testa e da ricordare nei momenti di migliore nostalgia. Certo perché gli italiani quando si parla di calcio, non si tirano mai indietro. Amano follemente il gioco del pallone. Vivono il calcio con una passione smisurata, addirittura in grado di compromettere la tradizionale diversità a-tipica di questa penisola. Arrivano al punto di unirsi di fronte al calcio. La categoria dei polentoni e dei terroni, del nord e del sud, diviene un tutt’uno che si chiama Italia. Questo a primo acchito, parrebbe un’ottima cosa. Se non che, purtroppo, si tratta di accadimenti che avvengono solo in funzione del calcio. Ci si dimentica della situazione nazionale e internazionale per uno sport che ormai non è più sport.
E’ un business economico che muove miliardi di euro. E’ impregnato di denaro. E quando la necessità di profitto ed extraprofitto supera la voglia di mettersi in gioco e il desiderio di essere parte e partecipare, i danni possono essere enormi. Può accadere che ad un certo punto, i soldi oscurino la bellezza e la complicità che fanno parte del gioco del calcio. A questo proposito, trattandosi di un gioco, non è possibile che un ragazzo ci rimetta la vita. Come se un morto allo stadio fosse un qualcosa da tollerare ogni tanto. Il prezzo da pagare per la competizione sfrenata e il potere dei soldi. Quasi facesse parte del ’gioco’. Ma di quale gioco stiamo parlando?
Forse di quello che ha deciso di svolgere il mondiale in Brasile con il falso intento di portare ricchezza in un luogo dove ne esiste ben poca. Non si è neanche domandato quali problemi avrebbe potuto arrecare. E se lo ha fatto, ha finto di ascoltare la risposta. Con questo chiaro obiettivo di simulata filantropia mascherato da interessi stratosferici, hanno cercato di far passare il mondiale come un mezzo per ridare vita ad una povero paese.
Senza perdere tempo, hanno cominciato la costruzione di opere in un tempo record e con mezzi economici insufficienti. Fresca è la notizia di un ponte appena crollato. Una costruzione non ancora terminata e messa in piedi in fretta e furia per rispettare il termine di apertura del mondiale. Sono morte decine di persone e si contano ventuno feriti. Solo una decina di vite umane. Suvvia che importa, ciò che interessa è che il mondiale vada avanti! Nessuna interruzione. Una vita umana non può di certo contare più di tutti gli interessi che ruotano intorno ad un pallone. Neanche se per evitare ritardi e problemi, qualcuno è morto sotto il cemento. Magari se qualche giocatore importante si fosse fatto male su un campo da calcio rinverdito con spray colorato, si sarebbe intervenuti con maggior forza e vigore. O forse no. Il gioco del calcio è sacro e deve continuare.
Peccato che nessuno abbia parlato del giro di prostituzione infantile e minorile che si cela con angosciante tristezza dietro a questo mondiale. Al di là della distruzione di molte baracche delle favelas, ci sono aspetti tragici e inquietanti. Come le persone che muoiono di fame, tra cui non poche di coloro costrette a vendere il proprio corpo per una razione di pane quotidiano. Ma la prima regola del gioco non dovrebbe essere il rispetto per l’altro? Non a caso quando viene effettuata una scorrettezza nei confronti di qualcuno, l’arbitro prontamente alza il cartellino giallo o rosso. Così avrebbe dovuto agire il mondo intero. Uscire allo scoperto, rinnegare la propria omertà ed evitare questa ingiustizia.
Invece ha preferito il silenzio. Non tombale, ma accompagnato da un mormorio di voci contrastanti. Si è svolto un dramma. La rappresentazione di una sorta di bilancia che da un lato pesa i soldi e dall’altra la vita. Stavolta ha vinto il denaro. Ma non l’Italia e nessun’altra squadra del mondo.