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IL POTERE DELLE NARRAZIONI E L’ARTE DEL KAMISHIBAI

C’è un’arte antica che accompagna l’essere umano lungo il suo cammino, un filo impalpabile che tesse destini e attraversa generazioni, il raccontare. Quando le parole si fondono in un affresco di sensazioni, non si limitano a trasmettere un pensiero, ma plasmano visioni, risvegliano emozioni sopite, lasciano impronte nell’animo di chi le percepisce. Sono un richiamo lontano e, al contempo, una guida che orienta lo sguardo e accende l’immaginazione.  La ricerca ci mostra come il pensiero si alimenti di immagini e di relazioni, che danno forma alla visione del mondo. L’idea prende vigore nel momento in cui trova un ritmo, se si sviluppa in una sequenza che la mente può seguire, esplorare, rendere propria. Le narrazioni costruiscono legami profondi, aprono passaggi tra vissuto e scoperta, trasformano l’effimero in tracce durature. E poi c’è la magia dell’incontro. Al nascere di una storia accade qualcosa di unico, il tempo rallenta, il mondo si dissolve ai margini e il pensiero si spinge oltre i confini del reale. Si entra in una dimensione ineffabile, un respiro condiviso, in cui il sapere diventa flusso, metamorfosi, viaggio. Narrare equivale a dare corpo alle idee, metterle in movimento e renderle vive e pulsanti. È restituire alla conoscenza il suo potere evocativo, la sua capacità di rivelare e illuminare. Per questo, oggi più che mai, le tecniche narrative restano essenziali; perché solo ciò che si fa racconto può radicarsi nello spirito e lasciare un segno capace di attraversare i secoli. E così, come orme sulla soglia di un orizzonte, ancora tutto da scoprire, ci inoltriamo in un territorio dove il narrare si fa materia viva. Un percorso tra solchi già incisi e spazi in divenire, nel quale ogni episodio rinnova il suo incanto e ogni voce aggiunge un frammento al grande arazzo dell’esistenza umana.

Figura 1. Kamishibai Man by Allen Say. Houghton Mifflin, 2005.

La maggior parte delle persone sembra interessata a trasformare i propri sogni in realtà.
Poi c’è chi trasforma la realtà in sogni.
Appartengo a quest’ultimo gruppo.
Allen Say

Nel cuore di una strada giapponese del secolo scorso, tra il vociare dei passanti e il profumo dei dolciumi, una bicicletta si ferma. Un uomo scende, apre con gesti misurati un teatrino di legno e batte le mani per richiamare l’attenzione. I bambini incuriositi si avvicinano e, mentre l’uomo al centro di quel minuscolo universo sfila, con mano esperta, le tavole dipinte, il crescente mormorio dei piccoli, assiepati davanti al teatrino, manifesta tutto il loro stupore.  Gli occhi si allargano, le dita si stringono ai lembi degli abiti trattenendo il respiro, nel timore di perdere anche un solo frammento di quel mondo che prende vita davanti a loro. L’intonazione che accompagna l’incanto non si limita a descrivere, modula la frequenza, indugia su una pausa, accelera nell’incalzare dei fatti, catturando ogni sussulto e sospiro dei partecipanti. In quel piccolo rettangolo di legno, il fluire degli eventi si sospende e lo spazio si trasforma in un palcoscenico vibrante di attese e sorprese. È l’inizio di un’ascesa nel tempo e tra le terre nascoste della fantasia. Ancora una volta, volgiamo lo sguardo a Oriente, dove un’antica arte, che unisce tradizione e innovazione, ci seduce con il suo fascino eterno, fondendo parola e forma, in una pratica coinvolgente. Il Kamishibai, letteralmente “teatro di carta”, è un tipo di rappresentazione nata in Giappone, che combina raffigurazioni e oralità, creando un’esperienza immersiva e interattiva, un universo vibrante di significati e di segni in movimento, oltre a essere un affascinante strumento di racconto. Il teatrino, (butai, è un guscio di legno che custodisce trame. Le sue ante, aprendosi come ali, svelano il primo frammento di storia, mentre chi racconta dosa con maestria il ritmo della rivelazione. Ogni sequenza è una soglia varcata, un fremito che accompagna il respiro degli astanti, avvolti tra tensione e meraviglia. Qualunque circostanza si trasforma in una danza di simboli, un tessuto di archetipi e figure che irrompono come tempesta nell’eco del ricordo. Barthes, Propp, Greimas e Lévi-Strauss ci insegnano che dietro la narrazione si cela una struttura profonda, una trama invisibile che salda il mito alla realtà e l’immaginazione al tangibile. Il Kamishibai non è soltanto un rituale di intrattenimento, ma un varco aperto su un paesaggio di connessioni segrete, nel quale ciascun atto sussurra significati che si estendono oltre il visibile. L’idea di Barthes, del testo come ordito di segni, risuona in questa affascinante tecnica, dove la scena figurata non è un semplice sfondo, ma un passaggio verso cosmi simbolici. Il colore, il tratto, lo spazio vuoto, comunicano oltre il linguaggio, evocando suggestioni. Come un’armatura, forgiata tra luci e ombre, le sequenze continuano a sfilare, accarezzando la mente dell’osservatore, invitandolo a interpretare e completare la visione, con il proprio immaginario. Bruner e Vygotskij ci ricordano che il pensiero narrativo delinea l’identità, legando memoria e apprendimento, sogno e conoscenza. Il Kamishibai diventa così un ponte tra chi narra e chi si lascia trasportare, un rito che si rinnova tutte le volte che le tavole scorrono, portando con sé il battito antico delle risonanze del passato. Peraltro, il narrare, come sostiene Freire, non è mai neutrale e può essere un atto di liberazione, un soffio di consapevolezza che apre spazi di riflessione e confronto. E dunque, il Kamishibai incanta, ma invita anche a osservare con occhi nuovi, a decifrare il mondo nella prospettiva del prisma della narrazione. Il sapere si costruisce insieme, nelle pause tra una tavola e l’altra, negli sguardi assorti, nelle voci che si fondono tra il narratore e il pubblico, in un viaggio collettivo verso l’assimilazione e la trasformazione. Come il teatro dei burattini e i pupi siciliani, che per secoli hanno animato le piazze europee, anche tale forma espressiva offre momenti unici, in cui l’evocazione si dipana nell’abbraccio di un’armonia profonda, tra parola e grafica, coinvolgendo gli spettatori in una dimensione corale e sensoriale. Dal prologo alla conclusione, segue la successione perpetua della grande affabulazione, scandita da tappe fondamentali. Il custode di racconti prepara gli ascoltatori, introducendo un avvenimento che inizia in una quiete apparente, presto sconvolta da un evento inatteso. La vicenda si snoda tra peripezie ed ostacoli di vario genere, fino al culmine emotivo, per poi giungere allo scioglimento, che ristabilisce l’equilibrio e lascia una traccia indelebile nella mente degli spettatori. A segnare il corso della narrazione è anche il suono cadenzato degli hyōshigi, i battenti di legno percossi con gesti rituali. Il loro ritmo non è solo un richiamo, ma un palpito che anticipa il preludio, immergendo i presenti in un’atmosfera rarefatta, in bilico tra il reale e l’immaginario.

Figura 2. Kamishibai Man by Allen Say. Houghton Mifflin, 2005.

I colpo sulle assi risuonano come liriche   di epoche remote, un invito a varcare la soglia di un oracolo di voci dimenticate. Nel silenzio che segue il momento culminante, gli sguardi restano immobili tra l’ultima illustrazione e la risonanza del cantore, quasi a voler trattenere il battito di un’ora sospirata, prima della conclusione. Ciascun partecipante porta con sé un frammento del mito, un dettaglio che si annoda ai propri sogni e timori. Non è solo il sentiero della rievocazione a giungere al termine, ma un incantesimo che ancora vibra, sospeso nell’aria, anche dopo che il teatrino si chiude con un lieve cigolio. Sebbene sviluppate in contesti culturali differenti, queste nobili arti popolari, condividono la capacità di trasformare lo spettatore in parte integrante di un mosaico di emozioni, trascinandolo in un’ambientazione che supera la semplice fruizione illustrativa, per diventare viva e partecipata. Avvolta dal fascino delle mitiche discipline giapponesi, la poetica della visione narrata rappresenta una raffinata sintesi di espressione figurativa e verbale, unendo l’eredità del passato all’innovazione educativa. Le sue radici affondano nel Giappone del Novecento, quando artisti itineranti, i kamishibaiya, animavano le strade con vicende epiche, accompagnate dal tocco ritmico degli hyōshigi. Con il butai, le leggende tornavano a vivere, trasformando la messa in scena in un percorso che stimolava la fantasia e favoriva l’interazione tra narratore e pubblico. Una tradizione che si ispira a pratiche arcaiche, come gli emakimono, rotoli dipinti del periodo Heian (794-1185) e l’etoki, una tecnica usata dai monaci buddisti itineranti per diffondere insegnamenti religiosi. Lontano dall’essere dimenticato, il cosiddetto “teatro di carta”, ha lasciato un segno profondo nella cultura giapponese. Diversi studiosi lo considerano un precursore dell’arte sequenziale moderna; le sue tavole illustrate, svelate una dopo l’altra, prefigurano il linguaggio del cinema e del fumetto, dove scenari e parole si mescolano in un flusso espressivo dinamico.  Non a caso, alcuni dei primi autori di manga, tra cui il grande maestro Shigeru Mizuki, iniziarono la loro carriera proprio come narratori di figure in movimento, imparando a giocare con la suspense, la scansione e l’impatto visivo dei disegni. Mizuki, in particolare, sviluppò un’abilità straordinaria nel trasporre il folklore in immagini, dando nuova vita ai yōkai e convertendo antiche leggende in racconti capaci di affascinare un vasto pubblico. La formazione nella narrazione figurativa influenzò profondamente il suo stile, caratterizzato da un raffinato equilibrio tra umorismo, inquietudine e memoria storica. Secoli prima, nelle sale dei templi rischiarate dalla luce tremolante delle lanterne, i monaci sfogliavano con solennità gli emakimono, svelando scene dipinte che racchiudevano frammenti di destino. Ogni tratto d’inchiostro celava un presagio e ogni sussurro del kamishibaiya intesseva un filo invisibile che evocava spirito di comunione. Con il passare del tempo, il Kamishibai si fuse con il commercio; difatti, già negli anni ‘30 del Novecento, i narratori itineranti finanziavano la propria attività vendendo caramelle ai bambini, anticipando inconsapevolmente le moderne strategie di storytelling pubblicitario.

Figura 3. Kamishibai Man by Allen Say. Houghton Mifflin, 2005.

Il rintocco secco degli hyōshigi preannunciava il loro arrivo, attirando i fanciulli, che frugavano nelle tasche alla ricerca delle ultime monete tintinnanti. Tra le mani stringevano un sacchetto dal profumo dolciastro, promesse di zucchero e segreti sciolti in voce. Il Kamishibaiya non era soltanto un maestro di storie, ma un custode di attimi sospesi, capace di trasformare qualsiasi strada in un palcoscenico a cielo aperto.  Alcuni decenni dopo, l’avvento della televisione portò quasi alla scomparsa del Kamishibai di strada, che era, però, tanto radicato nella cultura popolare che, inizialmente, la televisione stessa venne chiamata denki kamishibai, ovvero Kamishibai elettrico. D’altronde, quando un’usanza è ancorata al passato, sa attendere il momento giusto per rifiorire e, grazie all’intuizione di insegnanti e bibliotecari, è tornata presto in auge, rivelandosi un potente strumento didattico, che stimola la creatività, affina l’attenzione e promuove l’inclusione. L’ascolto si mescola con l’osservazione e chi assiste non è semplice spettatore, ma partecipa attivamente. Parola e immagine si rafforzano a vicenda e le illustrazioni, fulcro dell’esposizione, potenziano la percezione iconografica e facilitano l’elaborazione dei messaggi, in modo immediato. Nell’ ambito educativo, le rappresentazioni supportano la descrizione orale e facilitano l’acquisizione di concetti astratti che, mediante la percezione visiva, gli studenti possono decodificare senza difficoltà. Tale approccio si collega alle teorie dell’apprendimento di Paivio, secondo cui, l’associazione dell’esposizione verbale con quella grafica, potenzia la conservazione delle informazioni e la capacità di interpretarle, rendendo gli enunciati più accessibili e significativi. L’affermazione del Kamishibai è dovuta anche alla sua naturale propensione a veicolare valori di solidarietà e rispetto reciproco, che lo rendono un mezzo privilegiato per l’educazione alla cittadinanza globale. È stata Imai Yone, missionaria cristiana ed educatrice giapponese, a coglierne, per prima, le potenzialità pedagogiche. Laureata alla Tokyo Women’s Normal School (oggi Ochanomizu University) e influenzata dai suoi studi teologici negli Stati Uniti, osservò che il Kamishibai catturava l’attenzione dei fanciulli, più della tradizionale istruzione religiosa e, con il suo Gospel Kamishibai (Fukuin Kamishibai), lo adattò all’insegnamento. Fondando la casa editrice Kamishibai Kankokai, promosse poi la diffusione del Kamishibai stampato (insatsu kamishibai), ampliandone ancora la portata educativa e lo ridefinì un ponte tra oralità e alfabetizzazione, offrendo ai più piccoli un metodo innovativo, in linea con le teorie cognitive, che ne sottolineano l’efficacia. Alcune organizzazioni internazionali, tra cui l’UNESCO, ne hanno perciò riconosciuto il valore interculturale e a seguito di iniziative, come A Kamishibai for Peace, il suo utilizzo si è diffuso su scala globale, consolidandone il ruolo, quale tecnica di dialogo e coesione.

Figura 4. Kamishibai Man by Allen Say. Houghton Mifflin, 2005.

Non è solo la voce a far rivivere la storia, ma anche il gesto. Le dita del kamishibaiya, infatti, sfiorano i pannelli illustrati, con delicatezza, quasi danzando sul legno del butai. Un movimento più lento trattiene la tensione, un cambio repentino accelera, invece, il succedersi degli accadimenti. In questo gioco sottile tra parola, immagine e corpo, il racconto si fa rivelazione, coinvolgendo lo spettatore, ben oltre ciò che vede. Una volta cuore pulsante delle vie giapponesi, il “teatro di carta” ha trovato, dunque, nuova linfa nell’educazione e nella terapia, diventando uno snodo tra consuetudine e rinnovamento. La sua peculiarità continua a stimolare processi cognitivi, creativi ed emotivi, favorendo una formazione inclusiva e multisensoriale. Oggi, il Kamishibai si rinnova anche nell’universo digitale, contaminando registri comunicativi contemporanei, quali il gaming e le narrazioni interattive; in molti videogiochi il susseguirsi dei frame, scanditi dalla voce, richiama l’antica pratica nipponica, trasformando qualsiasi scelta del giocatore in una tavola che scorre come fotogrammi svelati del butai. Le visual novel giapponesi, con la loro struttura sequenziale e narrativa, ne raccolgono l’eredità. Allo stesso tempo, la realtà aumentata, in cui le simulazioni si sovrappongono agli ambienti reali, esplora forme inedite di Kamishibai che, attraverso le nuove tecnologie, diversifica i propri spazi di espressione. Se prima era il suono degli hyōshigi a richiamare l’attenzione dei passanti, ora sono le notifiche di un’applicazione, o il dinamismo del web, a generare coinvolgimento, trascinando il partecipante in un’esperienza che, pur cambiando forma, mantiene intatta la sua essenza, ovvero una relazione che prende vita grazie a scene e suoni. Nelle scuole, nei contesti terapeutici e nelle iniziative sociali, il suo linguaggio si conferma un veicolo di conoscenza e di integrazione, in grado di superare le barriere linguistiche e culturali, di promuovere una comunicazione accessibile a tutti e plasmare significati condivisi, che implementano il senso di comunità. Così, nelle mani di un insegnante, diventa una chiave per aprire nuovi mondi interpretativi, tra le pareti di una biblioteca è un invito a perdersi nel racconto e in un ospedale, accende un sorriso inatteso. Qualunque luogo si trasforma in un palcoscenico vivente ed ogni persona diventa parte attiva della rappresentazione, perché il Kamishibai non è solo uno strumento didattico, ma un flusso di emozioni che parla a qualsiasi età e cultura, un volo dell’anima che riesce a risvegliare memorie sopite e intrecciare nuovi legami tra chi ascolta. È proprio questa vibrazione invisibile che lo rende vivo, dandogli la forza di trasformare, anche il più semplice dei racconti, in un vissuto che lascia impronte profonde nel cuore di chi vi assiste. E nel silenzio che precede la svolta evocativa, gli occhi dei presenti brillano di attesa, con un giovane sognatore che trattiene il respiro, mentre un anziano riconosce nel racconto un riverbero della propria infanzia. Così, nel lieve fruscio dell’ultima tavola che scivola via, resta sospeso qualcosa di ineffabile, il legame sottile tra chi narra e chi ascolta, l’alchimia che trasforma un racconto in un’impronta destinata a durare. Forse, alla fine, ogni storia è un ritorno. Un soffio che ci riporta a quella strada affollata di sogni, a un bambino con gli occhi sgranati, a un narratore che svela un nuovo frammento di meraviglia. E mentre il teatrino si chiude, con un ultimo impercettibile cigolio, comprendiamo che nulla davvero finisce. Le trame trovano sempre una nuova voce, uno sguardo pronto ad accoglierle, un’altra anima disposta a lasciarsi attraversare dal loro incanto.

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Bibliografia

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Data:

22 Marzo 2025

2 thoughts on “IL POTERE DELLE NARRAZIONI E L’ARTE DEL KAMISHIBAI

  1. “Il potere delle narrazioni e l’arte del Kamishibai”, di Vincenza Pellegrino, si distingue per la profondità dell’analisi e la raffinatezza espressiva, con cui viene esplorata la dimensione narrativa, tanto nella sua funzione antropologica, quanto nelle sue declinazioni educative e performative. L’autrice intreccia con maestria riferimenti teorici, come quelli di Barthes, Propp, Bruner e Vygotskij, con un’affascinante ricostruzione storica del Kamishibai, evidenziandone la capacità di coniugare tradizione e innovazione. Uno degli aspetti più significativi della ricerca, è la capacità di rendere visibile l’intima relazione tra parola, immagine e gesto, ponendo in luce il valore del Kamishibai, non solo come strumento di narrazione, ma anche come esperienza immersiva e trasformativa. Attraverso un linguaggio evocativo e, al contempo, rigoroso, la Pellegrino riafferma la potenza della narrazione, nel plasmare l’identità e la memoria collettiva, ponendo l’accento sul ruolo del Kamishibai, nel contesto educativo contemporaneo e sulla sua evoluzione nelle attuali forme digitali e interattive.
    Il saggio non si limita a una descrizione del tradizionale “teatro di strada” nipponico, ma ne esplora le implicazioni culturali e cognitive, collegandole alle più avanzate teorie dell’apprendimento e della pedagogia narrativa. Questo approccio conferisce al testo una grande ricchezza interpretativa, rendendolo un contributo prezioso, per gli studi sulla narrazione, la didattica e l’arte performativa. L’eleganza stilistica e la capacità di coinvolgere emotivamente il lettore, confermano il valore di un lavoro che riesce a coniugare il rigore scientifico con la forza evocativa della parola narrata.

  2. “Il potere delle narrazioni e l’arte del Kamishibai”, di Vincenza Pellegrino, si distingue per la profondità dell’analisi e la raffinatezza espressiva, con cui viene esplorata la dimensione narrativa, tanto nella sua funzione antropologica, quanto nelle sue declinazioni educative e performative. L’autrice intreccia con maestria riferimenti teorici, come quelli di Barthes, Propp, Bruner e Vygotskij, con un’affascinante ricostruzione storica del Kamishibai, evidenziandone la capacità di coniugare tradizione e innovazione. Uno degli aspetti più significativi della ricerca, è la capacità di rendere visibile l’intima relazione tra parola, immagine e gesto, ponendo in luce il valore del Kamishibai, non solo come strumento di narrazione, ma anche come esperienza immersiva e trasformativa. Attraverso un linguaggio evocativo e, al contempo, rigoroso, la Pellegrino riafferma la potenza della narrazione, nel plasmare l’identità e la memoria collettiva, ponendo l’accento sul ruolo del Kamishibai, nel contesto educativo contemporaneo e sulla sua evoluzione nelle attuali forme digitali e interattive.
    Il saggio non si limita a una descrizione del tradizionale “teatro di strada” nipponico, ma ne esplora le implicazioni culturali e cognitive, collegandole alle più avanzate teorie dell’apprendimento e della pedagogia narrativa. Questo approccio conferisce al testo una grande ricchezza interpretativa, rendendolo un contributo prezioso, per gli studi sulla narrazione, la didattica e l’arte performativa. L’eleganza stilistica e la capacità di coinvolgere emotivamente il lettore, confermano il valore di un lavoro che riesce a coniugare il rigore scientifico con la forza evocativa della parola narrata.

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