Era il 1997, quando l’oceanografo americano Charles Moore, tornando da una regata nell’oceano Pacifico fra Hawaii e California, notò che l’acqua su cui la sua imbarcazione stava navigando aveva le sembianze di una zuppa torbida. In quel momento, Moore intuì che stava attraversando il “quinto continente”: la cosiddetta Great Pacific Garbage Patch, profetizzata dai ricercatori del National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA) già alla fine degli anni Ottanta.
La Great Pacific Garbage Patch, nota anche come Pacific Trash Vortex, è un’immensa chiazza d’immondizia costituita per lo più da minuscoli pezzi di plastica, mischiati con altri detriti più grandi. La sua estensione non è ancora nota con precisione. Le stime vanno da 700 mila a più di 10 milioni di chilometri quadrati, e potrebbero quindi arrivare a coprire un’area più grande degli Stati Uniti d’America. Nessuno sa con esattezza quanti rifiuti galleggino in questa porzione di oceano, che è troppo vasta per gli scienziati da setacciare. Inoltre, i detriti più pesanti tendono ad affondare fino a 30 metri dalla superficie rendendo impraticabile effettuare misurazioni accurate. Nonostante l’Algalita Marine Research Foundation (organizzazione ambientalista fondata da Charles Moore) e la Marina degli Stati Uniti abbiano entrambe stimato, indipendentemente, l’ammontare complessivo della sola plastica in 3 milioni di tonnellate, l’UNEP (United Nations Environment Programme) sostiene che oggi ci potrebbero essere fino a 100 milioni di tonnellate di detriti.
Questa sconfinata “isola di plastica” ha cominciato a formarsi dagli anni Cinquanta a causa dell’azione combinata dell’inquinamento umano e della corrente oceanica, dotata di un particolare movimento a spirale in senso orario, da cui il nome “vortice subtropicale del nord Pacifico”. Al suo centro, si trova una regione relativamente stazionaria, la cosiddetta “latitudine dei cavalli”, che permette ai detriti galleggianti di aggregarsi fra loro fino a formare una sorta di nube di spazzatura. Nonostante gli oceani ricevano ogni tipo di rifiuti prodotti dall’uomo, la plastica ne è la regina incontrastata per due motivi principali: da un lato, la durabilità, il basso costo e la malleabilità la rendono il materiale ideale per i prodotti industriali e di consumo; dall’altro, non è biodegradabile. In un processo chiamato fotodegradazione, la luce del sole tende invece a spezzarla in pezzi così piccoli da raggiungere la dimensione dei polimeri che la compongono.
Gli effetti sull’ambiente non sono ancora stati studiati in maniera approfondita e sembra difficile valutarli con accuratezza data l’estensione del fenomeno. Tuttavia, una cosa è certa: il galleggiamento di questa miriade di particelle dal comportamento idrostatico, simile a quello del plancton, disorienta gli animali che non riescono più a distinguere i rifiuti dal cibo. In questo modo, gli animali ingeriscono agenti chimici altamente tossici, come il BPA (bisfenolo A) e il PCB (policlorobifenili), che così entrano pericolosamente nella catena alimentare marina. Ma non è tutto. Recentemente, il Woods Hole Oceanographic Institution ha rivelato che il Great Pacific Garbage Patch sta diventando una vera e propria nuova nicchia ecologica – informalmente denominata “platisfera” – dove la plastica è colonizzata da migliaia di tipi diversi di organismi, tra cui anche agenti potenzialmente patogeni.
In tutti questi anni che sono trascorsi dalla sua scoperta, pochissimi studi sono stati condotti sulla più grande discarica galleggiante del mondo. Del resto, “l’isola di plastica” è lontanissima dalla terra ferma e nessun paese è intenzionato ad assumersi la responsabilità della sua formazione. Per il momento, la questione interessa solamente scienziati e ambientalisti, che cercano un modo per ridurne l’estensione. Tuttavia, ripulire le acque dai detriti non è assolutamente facile: le particelle di microplastica sono grandi quanto alcuni piccoli animali marini, che rischierebbero così di rimanere intrappolati nelle reti lanciate per raccogliere la spazzatura; inoltre, l’area è davvero troppo vasta. Il Marine Debris Program del NOAA ha stimato che ci vorrebbero 67 navi ogni anno per riuscire a ripulirne meno dell’1 per cento. Lo stesso Charles Moore, seriamente impegnato in un’opera di sensibilizzazione attraverso la propria organizzazione, ha affermato che risanare questa porzione d’oceano manderebbe in bancarotta qualsiasi nazione. Così, mentre altre possibili zone di accumulo di rifiuti oceanici fanno la loro comparsa sui computer dei ricercatori, la Great Pacific Garbage Patch rappresenta non solo un disastro ambientale ancora incalcolabile, ma la metafora ideale del fallimento del nostro cieco modello di sviluppo.