I ruderi del castello d’Eufemio dominano ancora dall’alto la valle e i poggi circostanti: il tempio dorico di Segesta, testimonianza di una civiltà perduta, evocata solo da maschere tragiche; e Pianto Romano, memoria di vite spezzate e tradite. Ai piedi il paese, Calatafimi-Segesta.
Uno scenario policromo si apre a chi si affaccia a guardare di lassù: ocra, arancio, verde, giallo, sono i colori dei campi arati di fresco, degli agrumeti, delle viti che stendono i loro tralci sulle dure zolle, arse dal sole; degli ulivi spennellati d’argento, delle messi dalle spighe gonfie, sazie di sole! In basso, ai piedi del castello, la Matrici (chiesa Madre) sulla cui facciata domina l’orologio che segna con i suoi rintocchi i quarti e le ore. Dal piazzale, antistante la Matrici, scendeva una strada che portava diritti alla piazza grande del paese. Di fronte un’antica casa maestosa dalle tonalità barocche, con un lungo balcone in ferro battuto, ospitava al piano terra l’antico Circolo dei signori del paese. La costruzione risaliva all’Ottocento, l’aveva fatto costruire il farmacista del paese Biagio Autuori. Ai fianchi di quella casa padronale si aprivano due arterie, le due vie principali, entrambe in salita. Era questo il paese dei miei nonni materni, Autuori e Bortiglio. Da ragazzina pensavo che il nome Calatafimi derivasse dal greco καλός φημί (kalòs femì – il bel parlare); ma più tardi appresi che derivava dal soprannome Phimes dato a Diocle, il proprietario del Castello.
Le strade erano tutte in salita e in discesa, le traverse che collegavano le due arterie principali erano fatte a scala, acciottolate. Su e giù per quelle scalinate, più o meno ripide, le donne più anziane, vestite di nero, il capo coperto da un velo, se di ceto borghese; o da un fazzoletto di cotone grigio a disegni neri se di stampo contadino, sostavano di tanto in tanto, curve sulla schiena, nella salita, attente al passo, nella discesa. I ragazzini, invece, ne facevano campi di gara, per conquistarne ora la cima, ora il fondo. Su quei ciottoli levigati, i muli e i somari, carichi, scivolavano sugli zoccoli. Il respiro di una natura aspra e forte alitava da ogni cosa, dai ciottoli ingabbiati in nastri di marmo alle case di pietra viva tagliata, dal profumo di legna bruciata, che si mescolava alla fragranza del pane appena sfornato, ai vapori acri del mosto travasato, nei magazzini. Le case, dai tetti di coccio, velate dal tempo, che si appoggiavano le une alle altre, digradando, sui fianchi della collina, disegnavano il paesaggio a onde rosse muschiate. Dalle prime luci dell’alba, fino al tramonto che, lentamente, inghiottiva le case, le strade, nel buio ovattato da un silenzio quasi religioso, dall’alba fino al tramonto, la vita trascorreva ordinata e la scandiva il sole, prima che l’orologio della Matrici.
Ai primi quattro rintocchi, faceva eco la voce delle madri, dei padri, che invitava, sollecitava, ordinava. Dalla campagna circostante si levava il canto del gallo e dalle strade salivano le antiche cantilene dei contadini, che lasciavano il paese, per recarsi in campagna, armati di zappa, a dorso di mulo. Poco dopo le cinque, le campane della Crisiedda (chiesetta) di corso Garibaldi, tirate a mano dal sagrestano, annunciavano la messa delle sei. Le pie donne, le più sollecite, scendevano dalle loro case e, costeggiando i muri, frettolose salivano la scalinata scoscesa della chiesetta, ne varcavano la soglia scavata dal tempo, e dopo avere immerso le dita nell’acqua benedetta della pila e fattesi il segno di croce, si inginocchiavano e pregavano. Pregavano per una buona annata, le figlie da maritare, la dote che non c’era… e l’arciprete diceva Messa in latino ma predicava in dialetto, per arrivare alle povere donne analfabete. Erano, infatti poche le donne istruite in paese, solo quelle di ceto borghese, condizione sociale questa che aveva permesso loro di frequentare i collegi delle città di Trapani o di Palermo.
La scuola elementare, infatti, era l’unica scuola di cui il paese fosse dotato e in pochi riuscivano a terminarla. Dopo il canto del gallo, le cantilene dei contadini il rintocco delle campane, le voci si articolavano. Un rullo di tamburi, richiamando l’attenzione dei paesani, annunciava la voce del banditore: «Sintiti! Sintiti!…» e via con il bando. Era lui il portavoce della cronaca ufficiale del paese: feste, cerimonie, servizi e disservizi, scadenze… tutte le notizie facevano il giro del paese a suon di tamburo e richiami. A questa voce ufficiale, si univa quella dei venditori ambulanti, pescivendoli, mercanti di tessuti, rivenditori di capi da corredo. Allora dalle terrazze, dagli usci si affacciavano le donne e patteggiavano per gli acquisti; mentre altre, dietro le persiane socchiuse delle finestre, come di consueto, furtivamente spiavano, e non solo la merce, ma gli acquisti. Della cronaca, non ufficiale, rosa o nera che fosse, erano loro i reporters, le zitelle, donnine garbate, ragazze più o meno invecchiate, chiuse nei loro abiti accollati, stretto il seno in bustini di cotone, perché ne appiattissero la rotondità, i capelli tirati all’indietro e raccolti a crocchia sulla nuca, spiavano dalle persiane socchiuse, tra una faccenda e l’altra. Controllavano le mosse dei vicini, gli arrivi, le partenze, ne annodavano le fila e ne ricostruivano le storie, gli amori, casti e non, le fortune, le sventure… E le notizie facevano il giro del paese, bisbigliate da una finestra all’altra. Ma quelle donnine non si scambiavano solo notizie ma panierini fatti di canne tagliate e intrecciate con verghe, colmi di fichi, grondanti miele, di albicocche mature e rosee come le guance di un bambino; o contenenti la “levatina” la pagnottina di pane lievitata, inacidita, ricoperta di un pampino di vite. Levatina che le massaie conservavano dopo ogni panificazione per la successiva. Correvano questi cestini da un capo all’altro delle terrazze che si affacciavano sui cortili interni delle case, annodati ad anelli in ottone e spinti da lunghe canne, scorrevano sui fili di ferro che le massaie usavano per stendere i panni. D’estate in paese il caldo era afoso; le mosche si moltiplicavano, a causa delle stalle, dello sterco che somari muli e cavalli disseminavano lungo le strade; o per la presenza di grappoli d’uva appesi sulle terrazze. Per tenere lontane le mosche dal soggiorno o dalla cucina, lunghe tende a rete ricoprivano le porte-finestre delle terrazze, ma se nonostante queste le mosche fossero entrate, allora un nastro attorcigliato cosparso di miele e colla le aspettava, appetitoso e mortale, appeso ad un lampadario. Lì, appiccicate, le mosche morivano, una dopo l’altra, dopo aver tentato inutilmente di riprendere il volo… Su una delle due arterie principali al n.48, c’era un portoncino, accanto, un cortile su cui si aprivano stalle e magazzini. Lì era l’abitazione della nonna. Si salivano tre rampe di scale di marmo grigio arrotondato sul bordo, e lì c’era l’ingresso al salotto e alle camere da letto, e accanto l’ingresso al bagno. Salite altre due rampe di scale piastrellate, dagli spigoli aguzzi, si accedeva alla cucina e al soggiorno. Sui due ambienti si aprivano due terrazze, la cucina si affacciava sul cortile l’altra sulla via Garibaldi. Da piccola, arrivavo in macchina con le mie sorelline, i genitori e la nonna paterna, per trascorrere la villeggiatura a San Vito. Ma da grande arrivavo in corriera con la mia inseparabile sorellina, una splendida morettina dai capelli ricci e dagli occhi neri, fondi e lampeggianti e dal corpicino armonioso. Arrivate sul portone, dopo aver picchiato ripetutamente con il battente, esplodeva dalla nostra bocca all’unisono un richiamo: «Nonna!!!», immediata rispondeva con voce tremolante per l’emozione la nonna e, con tono baritonale, la voce di zia Gina. Con il passo forte sul tallone la nonna scendeva per riceverci giù in salotto, dove era pronto il caffè, mentre la zia Gina si precipitava svelta giù, giù, fino all’ultima rampa di scale per abbracciarci! La nonna ci baciava, ma più che con le braccia ci cingeva con la tenerezza del suo sorriso, che le illuminava il viso e più intensa rendeva la luce azzurra dei suoi occhi. Era una donna alta e asciutta nonna Rosa, la sua carnagione bianca e rosata sulle guance e sul mento, le conferiva un aspetto fresco; austera nel portamento, ma dolce e vitale nel tratto. Amava teneramente tutti i suoi nipoti, ma idolatrava mia sorella Rosa, per averla allevata da piccina, dopo che io nacqui. Il benessere fisico lei lo misurava dalla rotondità, sicché noi ci vedeva sempre magre. Apprensiva e sollecita, ci invitava a rinfrescarci dopo il viaggio. Già dalla sera prima tutto era pronto per noi: i letti, gli asciugamani, le saponette profumate. Ai letti la nonna dedicava una cura quasi maniacale, i materassi di lana, venivano lavati puntualmente ogni estate. La loro forma era perfetta, la coperta di cotone candida vi si adagiava come su un altare. Rammento che un giorno bussò alla sua porta una lontana parente del nonno, arrivò dicendo: «Il letto, il letto!». Non si reggeva in piedi, aveva delle vertigini, il viso paonazzo, si lasciò cadere sul letto di mia nonna!
Rivedo ancora l’immagine del volto di nonna Rosa congestionato, stravolto, per quella infelice invasione del luogo più sacro della sua casa e rammento la sua foga, quando la parente del nonno andò via, la sua foga nel disfare il letto, da cima a fondo e nel cambiarne le lenzuola, le federe e il copriletto! Tutto era pronto anche in cucina, la tavola rotonda imbandita: su di una tovaglia candida tessuta a mano si notava subito un pane dalla crosta scura, cotto a legna, tempestata di semini di sesamo. Al centro una brocca d’acqua travasata da un “bummulu” (un orcio) che trasudava; una zuppiera colma di polpettine fumanti, in salsa di pomodoro, prodotto della terra di nonna, Vignazzi, un piatto di sardine salate ricoperte di olio verde, di prima spremitura delle olive giarraffe provenienti dall’uliveto di San Vito e poi non ultimo, il formaggio tenero e delicato, il primo sale, formaggio alla prima fase di stagionatura, che portava poi per fasi successive al pecorino! E c’era anche quello che trasudava olio, da grattugiare sui maccheroni fumanti, che frattanto la nonna serviva, ricoperti di salsa al basilico, polpettine e melanzane dorate in padella. L’appetito ci divorava! Era l’effetto di quelle pietanze profumate? Sicuramente, ma credo anche della gestione ordinata e serena della vita! Assaporavamo insieme con il profumo e la bontà delle pietanze, il calore dell’amore ed il sapore del dono e del sacrificio. Ci nutrivamo di cibo e di virtù! Assaporavamo il gusto della vita, sapore e sapori perduti.
Tra i tanti monumenti dei secoli trascorsi, potrebbe forse, trovare posto, oggi, anche un monumento alle virtù estinte, affinché le generazioni presenti e future possano sapere che c’erano una volta le virtù e che furono quelle a dare il sapore alla vita e l’Anima alla Storia Civile.