Cerchiamo di definire cosa intendiamo qui per “servizio pubblico multimediale”. La cura degli interessi pubblici è lo scopo di ogni apparato amministrativo (Stato ed altri enti pubblici), cura che può essere affidata in concessione ad Enti privati. I servizi pubblici, in particolare, rientrano tra quelle attività materiali poste in essere dalla P.A. nei confronti della collettività indifferenziata o, a volte, nei riguardi di determinati destinatari. Restringiamo qui il campo ai servizi realizzati via stampa, via Radio, via TV, via web.
Alcuni di questi sono generali, cioè riferiti indistintamente a tutti i cittadini come la diffusione di un giornale e speciali, laddove invece soddisfino esigenze particolari di una determinata categoria di utenti (ad es.: programmi radio in lingua tedesca, programmi TV educativi per la scuola, ecc.).
La nozione di servizio pubblico si colloca a confine tra il «pubblico» e il «privato», in una sorta di zona grigia che muta costantemente nel tempo a seguito di trasformazioni socio-economiche, del riassetto dei compiti dello Stato, nonché per l’evoluzione tecnico-scientifica o per l’insorgere di nuovi bisogni della collettività cui i pubblici poteri sono chiamati a far fronte.
Un Servizio Pubblico Multimediale fornisce i servizi multimediali (giornali, radio, TV, web) che non siano forniti da privati e che siano di utilità pubblica condivisa. Oggi i servizi finanziati dallo Stato sono sostanzialmente la stampa (finanziamenti ai giornali, anche impiegando parte del “canone Rai”) e la Rai.
Secondo la teoria soggettiva il servizio può considerarsi pubblico in quanto venga gestito da un soggetto qualificabile come ente pubblico; ad esempio, il servizio televisivo fornito dalla Rai è pubblico perché fornito da un Ente che è una azienda privata ma posseduta dallo Stato centrale.
Secondo la teoria oggettiva un servizio si può considerare pubblico quando è un servizio per il pubblico, cioè per la massa indeterminata dei cittadini che si trovano nelle esigenze e nelle condizioni per richiederlo. Quindi paradossalmente è pubblico il servizio televisivo in generale. Su queste definizioni si trova tutta l’ambiguità del definire cosa sia un “servizio pubblico” e se come e quando la Rai lo sia.
La Rai, in precedenza EIAR, prima ancora URI, è nata per fornire un servizio pubblico basato sulle “nuove tecnologie” nate più di un secolo fa, il cui sfruttamento per fornire un “servizio pubblico” a quei tempi era possibile solo se svolto da un soggetto dotato di adeguate risorse economiche e in un modo che agli inizi era assolutamente non profittevole, dati gli enormi costi della infrastruttura tecnica. Servizio che all’inizio vincolava solo contenuti senza che altri potessero fornirli in alternativa: informazione, formazione, intrattenimento, il cui costo era però una frazione del costo della infrastruttura. Nel volgere dei decenni qualcuno scoprì che l’intrattenimento si poteva farlo pagare e così nacque il “canone Rai”. Con l’evoluzione tecnologica gli stessi servizi possono essere resi oggi praticamente da chiunque, e quello che era un “abbonamento ai servizi Rai” è stato trasformato in una “tassa di possesso” impiegata per finanziare sia Rai sia i giornali. Tutti i contenuti profittevoli sono forniti oggi anche da imprese private, e gli unici servizi pubblici che oggi la Rai fornisce sono l’informazione “strettamente governativa” (per l’altra esistono innumerevoli altri canali alternativi), la formazione culturale e scolastica (che non dà profitti), la gestione degli archivi, programmi non profittevoli come ad esempio l’orchestra Rai o le trasmissioni in lingua ladina. Per l’informazione e l’intrattenimento profittevole c’è una amplissima offerta esterna gratuita alternativa alla Rai, che tuttavia continua a fornirla sia in cambio di un finanziamento da parte dello Stato Centrale sia per ottenere ricavi pubblicitari; che in questo caso non svolge più una funzione di Servizio Pubblico. A livello contabile in Rai le aree “servizio profit” e “servizio pubblico” sono separate, ma oggi sarebbe necessario approfondire cosa la Rai definisca come “servizio pubblico”.
Oggi la Rai, impresa giuridicamente privata (quindi “non” si viene assunti per concorso pubblico ma per “chiamata diretta”, o tramite selezione ma solo per personale di basso livello retributivo e alta qualificazione tecnica), definisce sé stessa come un “servizio pubblico”. Una definizione che in mancanza di una definizione chiara e condivisa è ambigua, perché afferma che la RAI è (ancora) un servizio pubblico, ma nei decenni l’offerta si è moltiplicata e non è più chiaro dove la RAI svolga un servizio pubblico senza alternative. Ormai la Rai in buona parte compete con programmi analoghi, ed è quindi un broadcaster commerciale come gli altri, il che potrebbe implicare niente finanziamento da canone ma anche la stessa libertà di affollamento pubblicitario dei canali privati. Implicherebbe anche la stessa libertà da vincoli giuridici, negli acquisti, nella trasparenza, ma a quel punto almeno quella parte dovrebbe diventare una “vera” azienda privata. I concorrenti non lo vogliono, e anche solo per questo motivo sembra probabile che la RAI resti vincolata come azienda pubblica.
Nei suoi (70 o 100, a seconda da quando si parta) anni di vita la RAI, azienda di proprietà pubblica al 100% e concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo, ha seguito pedissequamente l’evoluzione della classe al potere. Filogovernativa al 100% quando il Governo era chiaramente di una parte politica, ha poi seguito tutte le evoluzioni della classe dei politici al potere, divenendo poi un piccolo modello in scala del Parlamento, subendo anch’essa la crisi che all’incirca dal 1992 ha causato un cambiamento dell’insieme dei partiti, seguendo poi, come un piccolo modellino in scala 1:5.000 tutte le circonvoluzioni e i giri viziosi sempre della classe al potere, e anche dell’Italia; e anche oggi è perfettamente allineata; è normale, in ogni azienda i dirigenti eseguono gli ordini della proprietà, e la RAI è costituita come azienda privata.
Caso quasi unico, in Rai accade che si venga assunti su “indicazione” ma con un contratto “a tempo indeterminato”, quindi ogni “ondata” resta dentro la Rai. Questo pluridecennale “ingresso a vita” ha comportato che la RAI sia stata ogni volta “spruzzata” da un po’ della vernice di ogni Parte e Partito, fino ad assumere un aspetto multistrato arlecchinesco. I contribuenti lo percepiscono ma non percepiscono più dove sia il “servizio pubblico”. Il canone è l’imposta più odiata di tutte non solo perché è una imposta regressiva, che colpisce nello stesso modo sia i poveri sia chi può pagare centinaia di euro ogni anno per servizi audio,video e web, sia perché i contribuenti non riescono più a capire “per cosa” pagano.
In un periodo di recessione economica e sociale che ha radici nelle scelte governative degli ultimi decenni, assumerebbe straordinario rilievo il ruolo di un servizio pubblico audiovisivo che fornisse ai cittadini, in maniera universale, strumenti di accesso alla comunicazione, anche dal basso. Per “tutti” si intende tutti, senza alcuna discriminazione o vincolo. Un tempo si parlava di “arco parlamentare”, ieri si parlava di “politicamente corretto”, oggi sono di moda le “-fobìe”, il risultato è lo stesso: le voci fuori dal coro non hanno molto accesso al pulpito RAI. Ovviamente i blocchi mutano col tempo, dall’EIAR, alla RAI cattolica, poi lo storico blocco al Partito Radicale, ultimamente il Movimento 5 Stelle, questa lista di “mascheramenti” è molto lunga e descrive un aspetto della storia della politica in Italia. Sì, certo, non è stata la RAI autonomamente a deciderlo, ma questo forse i cittadini non lo hanno capito.
Un dramma per la RAI è che, nata come monopolio naturale, con il passaggio dalla TV analogica al digitale i canali video si sono moltiplicati, con il satellite l’offerta è limitata solo dalla scelta dell’impianto di antenna (a proposito, ai tempi dell’introduzione della TV la RAI Servizio Pubblico formò decine di migliaia di tecnici, mentre ciò non è accaduto per il passaggio al digitale, e questo le è stato ampiamente rimproverato, ma ormai i settori tecnici erano stati ristretti) ma i canali sono centinaia, e con il web l’offerta di Radio, brani audio, spezzoni web, testi, è divenuta illimitata. Persino le Agenzie di Stampa sono accessibili a chiunque voglia pagare, ma l’offerta gratuita basta già ampiamente a saturare il tempo libero di ogni persona.
Però…c’è un però… oggi questi strumenti esistono, si realizzano attraverso il web, ma è estremamente difficile emergere. Se tutti urlano nessuno riesce a farsi sentire, ed è quello che accade oggi; è quindi ancora necessario offrire “canali preformati” dove queste voci possano essere ascoltate da chi non ha tempo, né conoscenze, né soldi, né tempo da perdere ad imparare i mille rivoletti delle tecnologie informatiche, per esplorare il web e raccogliere le tante informazioni disponibili.
Considerando quali siano le forze politiche al Governo (ufficialmente e di fatto) conviene oggi lasciare da parte i sogni, come la proibizione dei Conflitti di Interesse e l’Antitrust, al momento non realizzabili. Così come non è realizzabile oggi in Italia fissare limiti di concentrazione per evitare che 2-3 grandi aziende mediatiche possano controllare uno o più settori rilevanti, quando il dramma è europeo: mentre la Commissione Europea predicava la libera concorrenza si è creato sul web uno stato di “oligopolio” al cui confronto la TV italiana è quasi un esempio di libero mercato.
Ogni settore del web ha il suo monopolista, che gradualmente lo diviene di altri settori: Google domina per i motori di ricerca e punta ai Sistemi Operativi, Facebook domina la comunicazione tra persone, Microsoft domina sistemi operativi e software per ufficio, Java è su tutti i computer, Flash è il player onnipresente, e così via. Potremmo domandarci a cosa serva una Commissione Europea che discute delle etichette sulle conserve e si fa sfuggire la crescita esponenziale di Google, e l’assenza di una industria informatica europea, ma questo è un altro problema. Il dramma è che questa “trascuratezza” della Commissione Europea sta lasciando crescere liberamente altri competitor dei Servizi Pubblici, come Netflix, senza fare nulla di concreto.
Gli italiani che oggi non vogliono pagare gli 8 euro mensili (circa) di canone RAI già pagano 70-80 euro al mese alle Pay TV, 20-40 euro al mese per l’ADSL, altre decine di euro per le connessioni dati degli smartphone, più i canoni per lo “scaricamento” da siti web; se sommassimo tutti questi importi, rapportato al tempo di fruizione, scopriremmo che la RAI, qui Servizio Pubblico senza se, è il fornitore al minimo costo orario. Se poi includessimo il fatto che un televisore dura trent’anni senza cambiare standard, e un PC tre, il risparmio economico per le famiglie italiane consentito dalla RAI è ancora più grande, e questa è una dimensione specifica dei Servizi Pubblici.
La questione è che questo dibattito interessa oggi pochissimo gli italiani che vedono la RAI solo come una fabbrica di sprechi, erogatrice di stipendi faraonici non meritati, a cui si deve pagare una tassa che non comprendono a cosa serva visto che la sua offerta informativa e di intrattenimento è indistinguibile da quella di altri, e che non fornisce “quasi” nulla di differente rispetto ad altri.
Ammettiamo che queste percezioni siano sbagliate, ma ci si dovrebbe domandare “perché la percezione è così sbagliata?”
La spiegazione è davanti agli occhi di tutti: anche se la RAI “ufficialmente” comunica molto poco, la comunicazione “sulla“ RAI è sterminata, e si affianca a quella della RAI subissandola. Nell’elenco dei redditi altissimi di dirigenti pubblici e giornalisti privati figurano decine di migliaia di persone, ma l’informazione su questi non è stata diffusa, quella sulla Rai lo è sempre.
Di ogni spreco della RAI viene data notizia con il massimo del clamore e del dettaglio; nessun clamore viene invece dato alla “enorme” attività di produzione e innovazione della RAI. Questo è talmente vero che quando i nuovi vertici arrivano in RAI quasi sempre ignorano persino l’esistenza di una realtà “storica e famosa” come il Centro Ricerche di Torino; così come si ignorava, andando nel banale, che le cento e passa persone di “trucco e parrucco” erano tutte realmente presenti, necessarie e superimpegnate.
Che la RAI eroghi compensi faraonici agli intrattenitori è vero, ma li eroga esattamente come ogni altro editore audiovisivo, che paga profumatamente (qualcuno direbbe ingiustamente, ma questa è un’altra questione) i suoi attori e artisti. Così come ogni altra realtà, pubblica e privata, la RAI ha una classe dirigente profumatamente pagata, ai livelli di altre aziende pubbliche e private (qualcuno direbbe che questi livelli di reddito sono assolutamente ingiusti, ma certamente non lo sono solo per la RAI, ma è sulla RAI che punta l’indice accusatore, forse per distrarre da altri obbiettivi).
Che la gente odii pagare il “canone” per un servizio che ritiene già fornito dai privati è una ovvietà, e infatti gli unici servizi RAI che i cittadini accettano che siano pagati tramite canone sono quelli senza pubblicità: che, salvo errori, si riducono ai canali a basso ascolto. L’unico altro servizio in concessione è quello di Radio Radicale, e sui radicali non si è mai discusso di stipendi troppo alti.
La miglior qualità del servizio di diffusione RAI non viene più avvertita, per la semplice ragione che oggi il territorio è ultracoperto da privati, e le aree dove “nessun” privato ritiene conveniente attivare la copertura sono assolutamente trascurabili.
La RAI si è sviluppata come “servizio pubblico” grazie alla tecnologia: era l’unico Ente che potesse fornire un servizio, l’audiovisivo, allora costosissimo,e su tutto il territorio nazionale. Si ricorda sempre, ma se ne dimenticano le implicazioni, che nel 1980 una macchina video con bobine a nastro magnetico costava quanto 3.500 stipendi mensili, e le “torri” di trasmissione erano considerate quasi strutture da fantascienza. Oggi un masterizzatore per DVD costa 20 euro, e le antenne per comunicazioni cellulari sono “a vista” di ogni balcone.
E’ necessario distinguere tra la RAI “profit”, i cui canali devono poter vivere di pubblicità, con gli stessi limiti e vincoli dei competitor, e la RAI “non profit” che non potrebbe sopravvivere senza il finanziamento pubblico. La RAI che, un tempo, non poteva sopravvivere senza il finanziamento pubblico era proprio la RAI “tecnologica”, per i costi altissimi delle apparecchiature; era la RAI “sperimentale” che provò per prima la TV a colori. Dal punto di vista editoriale era la RAI che forniva servizi culturali non remunerativi. Questa era la RAI “servizio pubblico”, governativa al 100%; per poi diventare parlamentare al 100%, lasciando rigorosamente fuori le forze politiche senza seggi in Parlamento. Le retribuzioni ritenute eccessive di molte figure RAI quindi derivano dalla natura di una organizzazione “collaterale” alla classe dirigente politica, e si possono tranquillamente ritrovare in ogni organizzazione pubblica e privata attuale, quindi non sono un fattore specifico di “cattiva fama” peculiare della RAI; semplicemente delle retribuzioni RAI si parla (male) esattamente come si parla (male) delle retribuzioni dei deputati, quando ben più numerose figure in altre organizzazioni (pubbliche e private) hanno introiti annuali ben più consistenti, anche “molto” più consistenti, e senza alcuna giustificazione che non sia la posizione di rendita.
Il “bene comune” che la RAI rappresenta sono il suo “archivio storico” e i servizi che fornisce a chi altrimenti non potrebbe permetterseli. La musica classica senza pubblicità è solo RAI (ex Filodiffusione), l’informazione al traffico senza pubblicità è solo RAI (ex Isoradio), il sito italiano più ricco di contenuti informativi e audiovisivi è quello RAI. Paradossalmente ogni servizio che la RAI ha fornito, e che avrebbe potuto essere fonte di profitto, è stato nel tempo affiancato da un servizio privato “profit”, come è accaduto e accade per ogni servizio pubblico. Il privato vuole competere con il pubblico solo dove può guadagnare, e fugge il servizio dove dovrebbe perdere. Ad esempio sulla TAV Roma – Milano è nato un competitor, ma nessun competitor esiste sulle ferrovie locali, anzi le gare vanno deserte. Le strade nelle città vengono divelte per fornire servizi di telefonia, ma nessuno ha fretta di offrire servizi alternativi dove la densità di popolazione è bassa. I servizi di telefonia cellulare si arrestano, e si diradano, dove non è conveniente installare le antenne, mentre nelle città le antenne sono persino troppo vicine, con potenze ormai di kW, con larghezze di banda spettacolari che ormai rendono possibile una televisione “semibroadcast”.
In assenza di un obiettivo strategico lungimirante la RAI, che ha un archivio storico enorme e si affida in gran parte a produzioni esterne, seguirà probabilmente nei decenni la stessa evoluzione dell’Istituto Luce, che oggi vive per amministrare il suo Archivio Storico.
Una RAI che voglia tornare ad essere “bene comune” deve rendersi percepibile agli italiani come un “bene” e che sia “comune”. Non affrontiamo qui la necessaria riorganizzazione della “azienda” RAI sul piano etico, perché argomento complesso, e purtroppo presupposto irrinunciabile per realizzare i cambiamenti necessari. Non ne trattiamo anche perché è un problema identico a quello di tante altre aziende pubbliche e private italiane. Si tratta di un problema globale : una riorganizzazione (in RAI e altrove) vera richiede sempre la sostituzione di una intera classe dirigente con un’altra né compromessa, né collaborante, né biologicamente parente, né discendente (fisicamente e spiritualmente) di quella precedente, il che al momento è impossibile; ma ipotizziamo che invece in futuro lo diventi, sì che possa essere realizzato il necessario cambiamento.
Una RAI che voglia essere vista come un “bene comune” deve agire come un “servizio pubblico”, cioè che operi nel pubblico interesse, fornendo servizi che altri non trovano conveniente fornire. Tornando un po’ alla “prima” filosofia, quella di “Non è mai troppo tardi” e delle “Tribune politiche con tutti i candidati”.
E soprattutto “deve” comunicarlo. La RAI è una azienda che si comunica “troppo” e “male”. A partire dalla impossibilità di ottenere risposte adeguate e in tempi rapidi dai call center : tutti i gestori telefonici hanno un “numero verde” a tre – quattro cifre da contattare in tutta Italia, la RAI non ce l’ha; ha un numero a pagamento per i reclami sui programmi. Persino sul sito RAI è difficile trovare i numeri di telefono degli uffici. E’ comprensibile, perché necessiterebbe una organizzazione ad hoc, e come pagarla?
Premesso che occorre per le scelte il consenso dell’azionista, che è il Governo italiano, la RAI per essere di nuovo vista come un “servizio pubblico” dovrebbe quindi dimostrare di essere un “bene comune”, muovendosi secondo tre direttrici.
Il “servizio dell’innovazione tecnologica”, vale a dire trasformarsi in una specie di CNR dell’audiovisivo, il che include ovviamente anche il web; questo implica una organizzazione ben separata, per evitare il ripetersi della “cannibalizzazione” delle aree tecnico-scientifiche, ridotte nei decenni a lumicino.
Il “servizio dell’educazione”, vale a dire trasformarsi in una colonna portante dell’Istruzione italiana, una strada che è stata percorsa più volte, ma in modo tentennante. istruzione intesa nel significato più ampio possibile: anche trasmettere in Onda Corta programmi d’italiano per la Cina e la Russia è istruzione.
Il “servizio della verità”, vale a dire realizzare contenuti editoriali che siano riconosciuti come “degni di fede”. E’ l’obiettivo più difficile da raggiungere. Anche fuori dalla RAI le varie direttive per il “politicamente corretto” si sono rivelate un boomerang alla veridicità e concretezza dell’informazione: la paura di poter offendere qualcuno ha di fatti bloccato qualunque visione anche solo leggermente diversa, in una specie di autocensura tale che abbiamo migliaia di pagine di siti web che difendono gli animali, ma pochissime pagine che abbiano il coraggio anche solo di dare voce alle necessità della ricerca medica per consentire una valutazione completa. Sono solo esempi di una problematica estremamente complessa.
Servizio Innovazione Tecnologica
La RAI è passata, nell’immaginario tecnico-scientifico italiano, dall’essere pari a Telecom o allo CSELT, al nulla. Certamente dispone di impianti di produzione audio-video enormi. Certamente dispone di centinaia di siti per antenne, che sono però ormai una frazione di quelle dei gestori di telefonia mobile. Google ha decine di “data center” allocati il luoghi idonei per archiviare i suoi dati, la RAI (che per quantità di dati archiviati in Italia è stata per decenni prima incontestata) qualcuno. La RAI potrebbe fungere da “archivio di Stato” informatico per tutto ciò che è audio, video e testo in Italia, ma non si è mai proposta in tale veste. La dirigenza RAI ha commesso un errore strategico che la sta portando alla morte: pur essendo una organizzazione il cui monopolio naturale era dovuto solo alla tecnologia (editore) , che supportava l’informazione trasmessa (notizie-spettacolo), ha scelto di essere un “creativo” che dovesse solo “usare” la tecnologia, che poteva agevolmente essere acquistata all’esterno.
Così come il business di Google e Facebook sono computer, software e algoritmi, che “gestiscono” l’informazione, così il business RAI era (è) composto di computer, software e algoritmi che “gestiscono “l’informazione. Infatti una testata giornalistica può essere creata o sostituita in 24 ore, cambiando i giornalisti che scrivono sul giornale, ma un impianto industriale richiede vent’anni per formare le nuove maestranze. Se l’Italia vuole sviluppare di nuovo un settore industriale, occorrono investimenti massicci nei settori tecnologici di punta, e l’audiovisivo lo è. Ovviamente necessita un cambiamento di paradigma e di classe dirigente (vedi sopra), ma l’alternativa è vedere la RAI, tra qualche decennio, esistere esclusivamente per gestire l’Archivio Storico.
Servizio dell’Educazione
Esiste un settore in Italia dove le assunzioni sono obiettivamente trasparenti e le promozioni indiscutibili: è l’istruzione pubblica. Nessuna persona insegna se non ha superato almeno un pubblico concorso, o lunghi anni di precariato; e chi ha effettuato lunghi anni di precariato lo ha fatto in un contesto dove “chiunque” poteva entrare solo facendo una domanda, senza favoritismi o parentele, (anche grazie al fatto che la scelta deve essere assolutamente impersonale e senza “valutazioni”, che in Italia si leggono, salvo eccezioni, come “raccomandazioni”) secondo graduatorie rigorose, in cui non c’è molto spazio per “segnalazioni” di superiori o altri. Certamente una tale metodologia ha mostrato la corda dove esistono valutazione personali come nell’insegnamento universitario, ma mostra come una organizzazione gigantesca possa funzionare, e bene, con criteri di assoluta trasparenza. Tuttavia tale organizzazione non ha i mezzi tecnici né le competenze che la RAI, per ragioni storiche, può avere, agendo per supportare l’Istruzione pubblica. Nulla di nuovo: la RAI ha già agito molto in questo settore ma…non lo ha comunicato con la necessaria energia, e vi ha profuso troppo poche energie. Esattamente come è accaduto con altre iniziative come il Segretariato Sociale. Al contrario di altre aziende sagge, la RAI nei decenni non solo non ha diversificato le sue attività, ma le ha addirittura ristrette. Un esempio? Le Poste fornivano servizi finanziari e vendevano francobolli, oggi a momenti dimenticano la corrispondenza e certi uffici postali sono un incrocio tra una banca e un supermarket. La RAI forniva concerti, cultura, prosa, sceneggiati, informazione, aveva una offerta culturale pluridimensionale; le dimensioni sono diminuite, così come la sua “quota” di canali nel settore di diffusione audio video. Certamente ha un sito web enorme, unendo tanti piccoli siti (una volta apparve il numero: ottocentoquarantasette!), e la RAI comunica male le sue attività.
Servizio della verità
Questo servizio avrebbe potuto intitolarsi “dell’informazione”, ma qualcuno lo avrebbe immediatamente confuso con le testate giornalistiche. In realtà la RAI trasmette informazione con la massima intensità anche quando fa cultura, divertimento, spettacolo. Certamente lo si è capito (il termine “infotainment” dice qualcosa?) , ma in un mondo web dove l’informazione è moltiplicata per mille rispetto a quanto possano offrire i broadcaster, continuare a concentrarsi sulla informazione “di testata” può avere solo due implicazioni: o “ogni ” struttura informativa RAI (e anche non RAI) è una testata giornalistica, oppure si deve applicare un approccio giornalistico (nel senso di “buona etica”) ad ogni informazione che la RAI diffonda, cioè praticamente a tutto. Sul Web la moneta principale è la “buona reputazione”, che si costruisce lentamente e si perde velocemente. Una RAI che voglia essere vista come “servizio pubblico”, cioè di tutti, deve ricostruirsi una reputazione. Su questo argomento tuttavia le proposte, e gli interessi privati, non mancano.
Ri -bilanciamento
Un problema “latente” della RAI è l’estremo sbilanciamento delle sue attività organizzative e comunicative su pochissimi settori ipertrofici, mentre altri sono anoressici. Per questo è indispensabile puntare sul servizio dell’innovazione e sul servizio dell’educazione, che sono gli unici due che potranno avere in futuro uno sviluppo. Senza innovazione non sarà possibile fornire la molteplicità di canali necessari per dare voce sulla RAI a chi oggi non ce l’ha, anche solo per ragioni di tempo-antenna. Senza attenzione all’istruzione non sarà possibile mantenere un livello di qualità adeguato a mantenere la RAI “attraente” per le molte voci culturali che potrebbero desiderare di avere voce in capitolo; ormai l’azienda che oggi fornisce un canale video di output aperto a tutti è Youtube, ma non esiste uno Youtube italiano. Un editore deve preoccuparsi di avere molte pubblicazioni al suo attivo, e di avere i mezzi per stamparle e diffonderle. Un editore non è uno scrittore, né un giornalista, ma un editore in gamba fa vivere molti scrittori e molti giornalisti. La RAI deve essere finalmente innovativa, in fondo tornando alle sue radici, quando la Radio e la TV erano la massima espressione delle tecnologie nuove. Focalizzarsi troppo sui contenuti è errato, nessuno dei competitor lo fa, se non ovviamente quando arriva alla fase di vendita, perché sono i contenuti che si vendono. Se la tecnologia corre i contenuti hanno spazio, e molto, ma senza tecnologia italiana non ci possono essere contenuti. L’esempio che abbiamo davanti agli occhi è il web: una tecnologia enorme e complicatissima, dove i contenuti (audio, video, testi) sono gli stessi di prima, ma trasportati in modo diverso.
Una azienda di servizio pubblico multimediale, che non è detto debba essere la Rai ma solo una sua parte, è necessaria. O si privatizza la Rai enucleando le parti di Servizio Pubblico, o si lascia la Rai pubblica ma privatizzando le parti che non sono più Servizio Pubblico. Dai fatti, sembra invece che tutto continuerà così com’è la Rai continuerà a seguire il trend di ascolti che segue da decenni.