Introduzione
Il dialogo tra Fëdor Michajlovic Dostoevskij e Gilles Deleuze offre uno spunto originale per l’esplorazione di tematiche centrali riguardanti la condizione umana, l’etica e la filosofia.
Gilles Deleuze
Sebbene le loro opere provengano da contesti storici e culturali radicalmente diversi, Dostoevskij scrive nella Russia zarista e Deleuze sviluppa la sua filosofia nel contesto post-strutturalista del XX secolo; entrambi gli autori affrontano questioni affini sulla persona, la trasformazione e la molteplicità. Questo saggio esamina come il pensiero filosofico di Deleuze possa fornire una lettura innovativa dell’opera letteraria di Dostoevskij, mettendo in luce le convergenze tra il concetto di polifonia dostoevskiana e la filosofia deleuziana della molteplicità e del rizoma. La critica alla centralità del soggetto e alla sua stabilità è un tema centrale in entrambe le opere. Se da un lato Dostoevskij crea personaggi che vivono conflitti interiori intensi e laceranti come Raskol’nikov in Delitto e castigo (1866), dall’altro Deleuze rifiuta una concezione dell’ente umano come unità monolitica, sostenendo l’idea che l’uomo sia un’entità in movimento e trasformazione. L’approccio polifonico di Dostoevskij, descritto da Michail Bachtin (1929), dove ogni personaggio presenta una voce autonoma e irriducibile, trova una curiosa affinità con la filosofia del rizoma di Deleuze e Félix Guattari (1980), che sostengono una struttura non gerarchica e molteplice della realtà. Entrambi gli autori, infatti, mostrano l’importanza della pluralità e della differenza, in contrasto con qualsiasi concezione monocorde e totalizzante della verità, riconducibile ad una concettualità definiente. In particolare, la figura di un individuo lacerato da conflitti morali e psicologici che attraversa le opere di Dostoevskij, anticipa il pensiero deleuziano del soggetto nomade e l’intrinseca frattura schizofrenica delle macchine desideranti. Il dramma di Raskol’nikov, diviso tra la sua ambizione di superare la condizione umana comune e il peso della colpa, è il riflesso di una schizofrenia esistenziale che prefigura proprio il concetto di schizofrenia politica di Deleuze e Guattari (1972). In L’Anti-Edipo, Deleuze sostiene che la schizofrenia, lungi dall’essere una patologia, rappresenta una forma di resistenza e di liberazione dalle strutture oppressive del desiderio e della società capitalista. La stessa lacerazione psichica che definisce i protagonisti dei romanzi dostoevskiani può essere letta come una forma di disordine che resiste alla disciplina prescritta dalla cultura e dalla religione. Il tema del caos come elemento fondante dell’esistenza è un’altra area d’intersezione tra Dostoevskij e Deleuze. In I demoni (1872), lo scrittore russo affronta il caos morale e politico che minaccia la Russia del suo tempo, presentando una società in preda al nichilismo e alla totale disintegrazione dei valori morali. Deleuze, al contrario, teorizza un’ontologia dell’immanenza in cui il caos non è una forza distruttiva, ma una dimensione creativa che alimenta il divenire esistentivo. In Differenza e ripetizione (1968), Deleuze sviluppa l’idea che la differenza non debba essere ricondotta a un principio superiore, ma piuttosto possa esprimere la possibilità di molteplicità infinite. La dimensione caotica del pensiero, quindi, diventa il terreno in cui nuove forme di assetti e di verità possono emergere, senza ricorrere a una gerarchia trascendente ad albero. Infine, il confronto tra la visione dostoevskiana di Dio e la filosofia atea di Deleuze, offre uno spunto interessante per analizzare le concezioni di trascendenza e immanenza. In Dostoevskij la religione svolge un ruolo cruciale come rileva Lukács (2012), ma è anche segnata da un’intensa lotta interiore, come dimostrano i dilemmi morali di Alëša Karamazov e la sua continua e spasmodica tensione tra salvezza e dannazione. In Deleuze, diversamente ed in modo polifonico, la trascendenza viene rifiutata in favore di un immanentismo di origine spinoziana che abbraccia il mondo senza ricorrere a un piano limitatamente porfiriano. Lontano da qualsiasi risoluzione finale, entrambi gli autori esplorano la tensione tra la ricerca di un significato e la consapevolezza della sua a volte e improvvisa inaccessibilità, ponendo il dolore e il caos al centro del fluire vitale. Il presente saggio mira, pertanto, ad esplorare le intersezioni e le divergenze tra Dostoevskij e Deleuze, analizzando il loro approccio al soggetto, alla libertà e alla molteplicità. Utilizzando un approccio interdisciplinare, che combina letteratura, filosofia e teoria critica, si cercherà di mettere in evidenza come le opere dei due autori, pur appartenendo a contesti storici e culturali diversi, s’interroghino in modo aperto sui medesimi fondamenti dell’esistenza umana.
1. L’etica del divenire: dal romanzo polifonico al pensiero rizomatico
Il concetto di “polifonia” sviluppato da Michail Bachtin (1929), offre una lettura cruciale dell’opera di Dostoevskij. Tale considerazione testuale disegna una struttura narrativa in cui i personaggi non sono semplici veicoli delle idee dell’autore, ma attori dotati di voci autonome e portatrici di una propria logica difforme. Secondo Bachtin, infatti, questi personaggi non si riducono a funzioni deterministiche, ma mantengono una propria indipendenza dallo scrittore onnisciente, permettendo al testo stesso di acquisire una profondità dialettica che sfida la ricerca di una sintesi finale. La pluralità di voci è, quindi, il cuore pulsante del romanzo dostoevskiano, che evita qualsiasi gerarchizzazione autoritaria per favorire, invece, una molteplicità di prospettive che si confrontano, senza mai risolversi in un’unica verità. Questo principio narrativo trova una sorprendente affinità con il pensiero rizomatico di Gilles Deleuze e Félix Guattari che, nel loro lavoro Mille piani (1980), ripudiano il modello metafisico dell’albero, implicante una crescita verticale e centralizzata delle idee. In contrasto, il rizoma propone un modello di pensiero orizzontale e ramificato, privo di un nucleo centrale, dove ogni connessione è potenzialmente aperta a nuove relazioni e sviluppi. Lontano da una concezione lineare della conoscenza, il rizoma enfatizza la non linearità e l’indeterminatezza, creando una struttura che si evolve attraverso interconnessioni impreviste, senza un esito definitivo. Tale considerazione rappresentazionale, è volutamente non definitoria, vive della dialettica del vuoto spostamento tra le caselle della coscienza come ascritto da Deleuze nel saggio Da che cosa si riconosce lo strutturalismo? (2007). Il romanzo I fratelli Karamazov (1880) esemplifica perfettamente questa dinamica. I tre fratelli, Ivan, Dmitrij e Alëša, rappresentano tre visioni contrastanti della vita e della moralità, ciascuna formulata in modo autonomo e irriducibile alle altre. Ivan, con la sua visione razionalista e nichilista, si oppone alla sofferenza ingiustificata nel mondo; Dmitrij, nel suo conflitto interiore, cerca una via di salvezza attraverso il sacrificio e l’espressione passionale; mentre Alëša, pur attraversato dai dubbi, raffigura una fede che si confronta continuamente con l’esperienza umana della sofferenza. Questi personaggi non si risolvono in un concetto unificante, ma continuano a esprimere le loro verità in un perpetuo stato di tensione. In questo senso, il romanzo presenta una fluidità che non cerca mai una conciliazione, ma celebra proprio la differenza e l’incompletezza, rappresentazione molto simile alla struttura rizomatica del pensiero nomade. In un simile contesto, l’etica del mutamento che emerge dall’opera di Dostoevskij, appare affine alla visione di Deleuze e Guattari, in quanto entrambe sfidano l’idea di una moralità fissa e conclusiva. Lo scrittore russo non cerca di risolvere i conflitti morali attraverso una sintesi ideale, ma li esibisce come un rizoma, in modo che continuino a ramificarsi in direzioni impreviste, sempre aperti alla possibilità di nuove interpretazioni, proprio come quella schizofrenia che narra l’universo delle macchine desideranti.
In I fratelli Karamazov, la pluralità delle voci etiche non si stabilizza mai, ma resta sospesa come un dialogo senza fine che esprime il movimento continuo delle idee. Questa visione dinamica della moralità, si concretizza nell’idea che ogni personaggio, così come ogni concetto, sia in uno stato perenne di evoluzione in cui le soluzioni non sono mai definitive, ma sempre in procinto di modificarsi. Come il rizoma, ogni idea non è chiusa in sé stessa, ma è in continuo contatto con l’iperbole incessante fluire dei segni caotici che s’inscrivono in una ritmicità ciclica (Bachtin, 2001) erosa dai non segni (Deleuze, 1975).
2. Il soggetto frammentato: schizofrenia e conflitto interiore
Nel panorama letterario di Dostoevskij, la persona è frequentemente rappresentata come lacerata da conflitti morali e religiosi che definiscono la sua esistenza. In opere come Delitto e castigo (1866) e Memorie dal sottosuolo (1864), il protagonista è intrappolato in una continua tensione tra desideri contrastanti e una colpa che lo perseguita inspiegabilmente. Il caso di Raskol’nikov è emblematico di questa frattura interiore: diviso tra l’aspirazione a incarnare il superuomo nietzschiano, sopra la morale comune e il senso di colpa cristiano che lo condanna. La scissione psicologica di Raskol’nikov non rappresenta soltanto un conflitto tra il bene e il male, ma la contrapposizione tra due sistemi morali e metafisici incompatibili. La sua esistenza si riduce a una continua lotta interiore tra l’individualismo radicale e la chiamata alla redenzione attraverso il pentimento. Questa frammentazione dell’individuo è analoga alla concezione di schizofrenia elaborata da Gilles Deleuze e Félix Guattari in L’Anti-Edipo (1972), dove tale disturbo non viene osservato semplicemente come una patologia, ma come un modello critico che smantella le strutture simboliche e le norme che definiscono l’identità individuale nella modernità promossa dalla società del benessere desiderante. Per Deleuze e Guattari, la schizofrenia diventa una metafora produttiva per ribaltare l’ordine psicoanalitico freudiano e quello capitalistico, mostrando come l’esistenza umana sia schiacciata inesorabilmente da forze esterne che ne riducono il potenziale liberante.
Nel caso di Dostoevskij, la frattura psicologica del protagonista di Delitto e castigo può essere letta come un’espressione di una più ampia crisi dell’esistere soggettuale, intrappolato tra modelli morali antitetici e incapace di trovare una sintesi nelle forze opposte della storia dove, soprattutto, «l’attività ed il godimento sono sociali tanto per il contenuto quanto per la loro origine» (Marx, 2004, p. 109). In questo conflitto, Raskol’nikov sembra essere non solo un individuo alienato, ma un simbolo della frattura che pervade l’intera società. La sua coscienza è continuamente scossa da una tensione tra il desiderio di affermarsi come essere superiore e la consapevolezza di appartenere a una realtà sociale che non può essere ignorata senza subire gravi conseguenze. Un turbinio di desideri presenti e rimossi al contempo, che esibiscono in modo ansiogeno e al limite dell’attacco epilettico «la sua sofferenza per questo tempo, la sua inattualità» (Nietzsche, 2000, p. 372). Deleuze e Guattari nel loro approccio alla schizofrenia, suggeriscono che proprio questa frammentazione non debba essere vista solo come un disagio psichico, ma come una forma di opposizione a un sistema sociale che cerca di omologare e conformare l’individuo. La schizofrenia, di conseguenza, diventa una forma di liberazione, un mezzo per sfuggire all’ordine simbolico che impone un’identità coerente e conformistica. Raskol’nikov, con il suo comportamento autolesionista e il suo pensiero caotico, incarna proprio questa resistenza alla normalizzazione, anche se la sua scissione lo porta di fatto alla distruzione piuttosto che alla redenzione. Una manifesta contrapposizione tra Dostoevskij e Deleuze risiede nel fatto che mentre il primo presenta il conflitto interiore come una tragedia che conduce al riscatto tramite il senso recondito del pentimento e la fede; il secondo lo interpreta come un’opportunità di liberazione da un sistema repressivo. In entrambi i casi, pur tuttavia, la scissione dell’individuo non è solo un fatto patologico, ma una metafora della crisi esistenziale della modernità, incapace di riconciliarsi con le strutture di potere che definiscono la sua esistenza.
3. Il trascendente e l’immanente: Dio, caos e libertà
Nel pensiero di Dostoevskij la figura di Dio e la libertà umana, sono trattate in modo problematico e ambivalente. La religiosità dello scrittore non si esprime mai in forme dogmatiche, ma attraverso una tensione continua, un colloquio con il divino che riflette le contraddizioni e le crisi dell’individuo.
In I demoni (1872), il conflitto tra nichilismo e ricerca di una verità trascendente, rivela come il caos e la scelta etica siano dimensioni inestricabili della condizione umana. Tuttavia, questo caos non è puramente distruttivo; è una forza che accompagna l’uomo nel suo cammino di autoaffermazione e riscatto, ma anche un riflesso del disordine che caratterizza la società e la moralità del suo tempo. In questo contesto, Dio non è una realtà lontana, ma una presenza che si manifesta nelle contraddizioni e nelle sofferenze della vita umana. Nella sua critica al nichilismo, l’autore non rigetta la dimensione trascendente, ma ne rifiuta una concezione ordinata e razionale, come quella della tradizione illuminista. Il dialogo serrato tra Pjotr Stepanovic e Kirillov nell’ultima parte de I demoni, esemplifica quanto sopra esposto: «[…] vada per il comfort. Dio è indispensabile, per questo deve esistere» (Dostoevskij, 1872, p. 453). Nei suoi romanzi, pertanto, il caos scaturisce dalla tensione tra il desiderio umano di libertà assoluta e la necessità di un ordine divino che possa dare un senso alla sofferenza e al male. Personaggi come Dimitrij Karamazov in I fratelli Karamazov (1880) e Stavrogin in I demoni, incarnano questo conflitto: il primo cerca un significato nell’accettazione della provvidenza divina, il secondo afferma un’autonomia distruttiva, una risata omerica. In contrasto, Deleuze propone un’ontologia dell’immanenza di spinoziana memoria che rifiuta qualsiasi trascendenza mistificatrice.
In Differenza e ripetizione (1968), sostiene che la realtà non è dominata da principi esterni o da un ordine trascendente, ma è caratterizzata da un flusso di diversità e caos che generano continuamente nuove forme di essere. Per lui, il caos non è distruttivo, ma creativo, permettendo la produzione di differenze e l’ammissione che «il fondamento è ricurvo» (Deleuze, 1968, p. 250) negante dello stesso principio di designazione tanto caro ad una filosofia empirica. L’autonomia personale ed etica non proviene da un atto di redenzione trascendente, ma dal riconoscimento della capacità individuale di agire nel caos e di creare nuovi significati in un mondo privo di ordini predefiniti. Se per Dostoevskij la libertà è legata alla lotta interiore, al conflitto morale tra bene e male e alla tensione con il divino, per Deleuze essa si esprime nella creazione e nel de-centramento dell’individuo. In un mondo senza principi metafisici che governano l’esistenza, l’indipendenza etica emerge come un processo di auto-creazione, dove ogni individuo ha il potere di riscrivere la propria esistenza, senza fare riferimento a un principio trascendente. Il caos in questo caso, è il fondamento di una realtà fluida e in continua evoluzione, dove la libertà non è vincolata a un ordine morale universale anche se perfettamente funzionante dalla macchina capitalistica. La critica deleuziana alla trascendenza non implica un rifiuto totale della spiritualità, ma una trasformazione della concezione stessa della spiritualità, spostando il concetto di Dio da entità trascendente a potenza immanente. In questa visione, la libertà non è più legata alle catene di un ordine etico universale, ma diventa la possibilità di agire nel caos creativo, rinnovando continuamente le possibilità di essere. Questa dicotomia tra il pensiero trascendente di Dostoevskij e quello immanente di Deleuze, si riflette in un confronto tra visioni opposte dell’indipendenza: una autonomia che si sviluppa attraverso la lotta con il divino e il sacrificio personale, e una che si esprime attraverso la propria realizzazione e autoaffermazione nel caos mondano.
4. Il corpo e la sofferenza
Dostoevskij esplora il corpo attraverso la sofferenza fisica e psicologica, che diventa un mezzo di redenzione per i suoi personaggi. In Delitto e castigo (1866), ad esempio, il corpo non è solo una sede di dolore, ma il palcoscenico su cui si svolge il conflitto interiore che porta alla trasformazione spirituale. La figura di Sonja Marmeladov incarna questo processo, poiché la sua sofferenza, derivante dalla prostituzione e dalla miseria, diventa una via per la salvezza. Il suo corpo, segnato da violenza e sfruttamento, diventa il mezzo attraverso cui Raskol’nikov inizia il cammino di purificazione. In questa visione, la sofferenza non è una semplice punizione ma un passaggio quasi obbligato attraverso il quale il protagonista può confrontarsi con la sua moralità e, infine, raggiungere una comprensione spirituale del suo esistere. La sofferenza fisica, quindi, non solo rappresenta un ostacolo, ma è anche il veicolo per una possibile redenzione. Contrariamente, Deleuze e Guattari propongono una concezione del corpo che rifiuta l’idea di una sofferenza funzionale a una verità trascendente.
In Mille piani (1980), il corpo è visto come un campo d’intensità e forze desideranti, in cui la sofferenza non assume un ruolo redentivo. La nozione di corpo senza organi esprime un insieme di flussi che non sono finalizzati a un ordine superiore o a una purificazione morale, ma sono piuttosto parte di un processo di continua creazione e di carattere infra-individualistico delle macchine desideranti. La sofferenza in questa ottica, non conduce a una salvezza spirituale, ma ad un’esperienza che intensifica la condizione corporea e le sue potenzialità di trasformazione. In questo contesto, il corpo non è un supporto passivo, ma un luogo dove si sperimentano intensità di desiderio inconscio che modificano il mondo circostante. Per Deleuze e Guattari, la sofferenza non è mai finalizzata a una purificazione o a un arricchimento morale, ma rappresenta un momento di cambiamento continuo. L’afflizione non è destinata a purificare o redimere il corpo, come per Dostoevskij, ma a produrre nuove possibilità senza un obiettivo trascendente. La visione deleuziana propone di fatto un corpo che è in perpetuo movimento, senza un centro stabile e senza la necessità di una raminga redenzione. Il dolore nell’unicità della singolarità dei mille piani è, piuttosto, un mezzo per la creazione e la nomadologia dell’esistere. La differenza tra le due visioni emerge chiaramente: per Dostoevskij la sofferenza è lo strumento che consente il passaggio dal caos alla salvezza spirituale, mentre per Deleuze è una forza creativa che permette al corpo di evolversi senza un fine moralistico e una logica della redenzione.
Conclusione
Nonostante le differenze filosofiche fondamentali, Dostoevskij e Deleuze condividono una visione dell’esistenza interumana come un’entità instabile, continuamente trasformata da forze interne ed esterne. Entrambi, sebbene partano da presupposti e conclusioni radicalmente differenti, mettono in luce la tensione imponderabile tra determinismo e libertà, e la necessità di affrontare il caos e l’incertezza come elementi costitutivi dell’esperienza umana. Per Dostoevskij l’autodeterminazione personale è legata al conflitto interiore, alla possibilità di scegliere tra il bene e il male e alla lotta contro il nichilismo. La sofferenza, per lui, è il mezzo che permette di riscoprire il significato più profondo della vita e della moralità. La sua visione etica si fonda sulla possibilità di una redenzione spirituale attraverso l’autosacrificio, la sofferenza e il confronto con il divino che non è mai un pensiero semplicemente confortante, ma una profezia del vivere esistentivo. L’individuo, intrappolato nel conflitto tra trascendenza e immanenza, si trova a dover navigare in un mondo caotico dove il senso di colpa, il desiderio di autonomia e la ricerca di salvezza s’intrecciano in una costante tensione. Deleuze, al contrario, rifiuta qualsiasi concezione trascendente o metafisica, privilegiando una visione immanente della libertà come inusitata creazione della volontà individuale. Il corpo e la sofferenza per il filosofo francese, non sono strumenti per l’autocoscienza o la redenzione personale, ma elementi che contribuiscono al processo di trasformazione costante della realtà sociale e dell’individuo. La sua etica, radicata nell’immanenza e nel flusso delle differenze, offre una visione dell’autonomia di giudizio non come scelta morale, ma come apertura verso nuove possibilità di essere in mille piani. In questo modo, il caos pur essendo distruttivo, diventa il terreno fertile per l’emergere di nuovi significati e connessioni. Entrambi gli autori, seppur in modo differente, pongono al centro della loro riflessione il soggetto come una realtà dinamica, continuamente sollecitata dalle contraddizioni interne ed esterne, che ne determinano l’intima evoluzione. La libertà, in entrambe le visioni, non è qualcosa di statico, ma un rivolgimento che si realizza in una continua interazione con il mondo e con le forze morali e sociali. Nel contesto contemporaneo, in cui la frammentazione sociale, culturale e politica sembra essere la norma, le riflessioni di Dostoevskij e Deleuze offrono una prospettiva utile per considerare l’etica e la libertà. La loro analisi dell’uomo come un’entità instabile e in continuo cambiamento, aiuta a comprendere le sfide contemporanee legate alla costruzione di un’identità personale e collettiva in un mondo in cui le certezze sono sempre più evanescenti. L’indipendenza personale, così come descritta da entrambi, non è mai un dono incondizionato, ma un processo che richiede impegno, consapevolezza e confronto con il caos e l’incertezza della realtà. In questo senso, l’opera di entrambi gli autori rimane un riferimento fondamentale per pensare l’etica e la condizione umana in un mondo che si presenta sempre più frammentato, complesso e privo di certezze assolute. La loro visione dell’umano come instabile, ma capace di trasformarsi, offre una chiave di lettura potente per le sfide che oggi siamo chiamati ad affrontare.
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Fonti:
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- Deleuze, G. (2007). Da che cosa si riconosce lo strutturalismo? In L’isola deserta e altri scritti: Testi e interviste 1953-1974. Einaudi.
- Deleuze, G., & Guattari, F. (1972). L’Anti-Edipo: Capitalismo e schizofrenia I. Einaudi.
- Deleuze, G., & Guattari, F. (1980). Mille piani: Capitalismo e schizofrenia II. Einaudi.
- Dostoevskij, F. M. (1864). Memorie dal sottosuolo (Trad. it. di A. Pescatori, 2004). Einaudi.
- Dostoevskij, F. M. (1866). Delitto e castigo (Trad. it. di G. L. Sica, 2006). Einaudi.
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