La quinta edizione di una delle maggiori esposizioni fotografiche del mondo prende vita nei suggestivi spazi espositivi allestiti nello Spazio Murat in piazza Ferrarese a Bari. La mostra, inaugurata da Ryan M. Kelly, premio Pulitzer per gli scatti fotografici realizzati per il Daily Progress, resterà visitabile al pubblico fino al 27 maggio.
Considerata la portata dell’evento, che viaggia per sedi sparse su tutto il globo, si tratta per il capoluogo pugliese di un’importante estensione verso l’internazionalizzazione. Negli ampi spazi espositivi, 150 metri lineari di parete fanno da quotidiano su cui leggere la cronaca del mondo, senza filtri ma solo con la durezza dello scatto, pari solo a quello della realtà che sta immortalando.
Grazie all’impegno di Cime di Vito Cramarossa, l’importante esposizione fotografica ha rinnovato il suo appuntamento nel capoluogo di Puglia, confermandosi tappa fissa della primavera barese.
La Fondazione WPP, nata 62 anni fa, ha sede ad Amsterdam e si occupa della tutela dei fotogiornalisti, ma soprattutto della libertà di stampa e del diritto di cronaca.
Dopo un intenso lavoro di selezione su ben 73.044 foto in lizza per il premio, presentate da 4.548 fotografi provenienti da 125 Paesi, nella capitale olandese, lo scorso 12 aprile sono stati svelati i 150 scatti vincitori della 61esima edizione, in corso a Bari.
Cinque gli italiani in gara nelle diverse categorie: Giulio Di Sturco, Luca Locatelli, Francesco Pistilli, Fausto Podavini e Alessio Mamo. Tutti hanno ottenuto un riconoscimento durante la cerimonia, entrando così a far parte del gruppo dei vincitori del WPP 2018.
Durante l’esposizione si svolgono una serie di incontri di approfondimento sul mondo del fotogiornalismo. Relatori delle public lecture sono fotoreporter di fama internazionale per la maggior parte vincitori del WPP.
Francesco Pistilli è un reporter freelance originario de L’Aquila, terzo classificato nella sezione General News al WWP 2018. Francesco è stato scelto tra i vincitori di quest’anno grazie ad una selezione di scatti della sua raccolta Lives in Limbo, che documenta l’inasprimento della rotta balcanica. Dopo le esperienze di lavori che lo hanno portato in Sierra Leone, in Uruguay, in Egitto, in Repubblica Centraficana e ovunque ci sia un respiro di vita, seguendo percorsi aspri e spesso pericolosi, Pistilli arriva in Serbia, dove realizza un reportage inedito sul viaggio disperato dei migranti verso l’Europa, bloccati dalla chiusura della frontiera e costretti ad affrontare il gelido inverno di Belgrado.
Il suo lavoro è stato pubblicato e distribuito su riviste internazionali, tra cui Time, BBC, M le magazine du Monde e il New York Times.
Come è nata quella che si potrebbe definire “l’Operazione Belgrado”?
E’ partito tutto dal tweet della collega e giornalista Eleonora Camilli, di “Redattore Sociale”. Lei era a Belgrado in quei giorni. Eravamo a conoscenza che dei profughi erano lì nascosti, ma nessuno sapeva dove. Un certo movimento di persone, intorno alla stazione dei treni, ha incuriosito qualcuno, tra cui Eleonora, che è rimasta sul posto a documentare cosa stesse accadendo. Dai tweet che arrivavano ho intuito che poteva essere una storia importante e sono partito. La situazione che ho trovato al mio arrivo era insostenibile. Più di mille rifugiati afghani e pakistani in fuga dai loro Paesi avevano trovato rifugio in capannoni dismessi, senza cibo né acqua, e a malapena una coperta ciascuno che usavano anche per asciugarsi, quando riuscivano a darsi una rinfrescata, tutto questo a -15° di temperatura. Insieme a un fotoreporter della Reuters e a pochi altri fotografi siamo stati i primi ad arrivare, prima che si scatenasse l’interesse mediatico sulla vicenda. Anche i più famosi giornalisti del posto non si erano accorti di nulla. La storia era sfuggita perfino ai cittadini di Belgrado. Boogie, il famoso fotografo serbo di “Street culture”, era stupito di avere una situazione di quella portata proprio a due passi e che nessuno se ne fosse accorto. Poi sono cominciate ad arrivare le varie associazioni umanitarie e via via le autorità hanno provveduto allo sgombero dell’aria con la sistemazione nei centri di accoglienza serbi.
Cosa ti è rimasto di quell’esperienza?
Purtroppo non ho notizie delle persone che ho conosciuto nei campi profughi, la cosa che mi rincuora è sapere che al momento sono rimasti in pochi, rispetto al numero dei rifugiati in Serbia dello scorso anno, e quindi mi piace pensare che quelli che ho conosciuto io ce l’abbiano fatta quasi tutti.
Il fotografo Ryan M. Kelly, premio Pulitzer e vincitore WPP 2018, ha deciso di lasciare il fotogiornalismo in quanto ha dichiarato di essere alla ricerca di un lavoro più stabile e meno precario. Si occuperà in Virginia, a Richmond, di una piccola produzione di birra. Qual è la tua esperienza in proposito?
Oramai ci sono tantissimi fotogiornalisti che producono tanto. Il problema è che le riviste si contano al massimo sulle dita di due mani. E d’altra parte i giornali, di fronte ad una maggiore offerta, tendono a pagare sempre meno. Per quanto riguarda la situazione in Italia, per i reportage è anche peggio in quanto il campo per questo tipo di lavoro è sempre più ristretto. Lo spazio dedicato a delle storie di approfondimento si assottiglia sempre di più. Oggi l’idea è quella di dare al pubblico quello che vuole, qualcosa di leggero. Il rischio, però, è quello di abituare il lettore ad un certo tipo di informazione. L’impegno nella lettura di un approfondimento, dopo, risulterà senz’altro faticoso. Se penso a certe riviste che pubblicano il tempo di lettura dei pezzi mi sembra di essere in un fast food in cui il cliente sceglie il pezzo che richiede meno tempo di lettura. In Europa ci sono tantissimi bravi fotogiornalisti ma con pochissime riviste. All’estero c’è sicuramente maggiore attenzione in tal senso.
E tu hai pensato al tuo paracadute, ad un piano B?
In effetti sto pensando all’insegnamento. Sto avviando dei workshop e in Spagna mi hanno proposto di fare un corso. Purtroppo vivere di solo fotogiornalismo effettivamente è impossibile. Bisogna essere allenati a rimettersi in gioco.
Ti capita spesso vedere pubblicate immagini a tua insaputa?
Purtroppo capita spesso ed è una cosa che mi fa infuriare molto. Mi è capitato di sapere di media nazionali che hanno rubacchiato foto pubblicate da siti on line, che me le avevano regolarmente pagate, senza chiedermene autorizzazione ed addirittura omettendo il mio nome. Non siamo tutelati in alcun modo ed è per questo motivo che non sono iscritto all’ordine dei giornalisti, non mi sento tutelato nel mio lavoro.
Cosa pensi di manifestazioni come questa?
World Press Photo è il più grande premio esistente di fotogiornalismo, è un premio prestigioso a cui partecipano, ogni anno, migliaia di colleghi. E’ un bel racconto degli eventi dell’anno in sintesi fotografica.
La cronaca moderna ci racconta di scatti ai limiti della privacy, per esempio per le vittime di incidenti stradali. Cosa pensi di queste situazioni così delicate?
E’ fuori dubbio che il lavoro è prioritario solo nel caso in cui non sia in discussione l’incolumità di alcuno. Detto questo, è sempre una valutazione molto personale. Per quanto mi riguarda ho un impostazione etico-sociale ben precisa, si può procedere con gli scatti solo se c’è già chi soccorre le vittime, in quel caso il mio lavoro è quello di documentare quel dato avvenimento e faccio solo il mio lavoro.
Cosa pensi degli scatti “fortuiti” che diventano virali decretando il successo di un fotoreporter improvvisato?
Il fotogiornalismo non è un caso, non può essere uno scatto isolato. La dimostrazione è proprio il WPP che premia scatti singoli e storie. Per diventare World Press Photo of the Year lo scatto non deve essere solo una buona foto tecnicamente parlando, ma deve saper raccontare il mondo nelle sue evoluzioni generando emozioni nell’osservatore. Se può essere un caso fortuito azzeccare uno scatto, bissare il successo e mantenere il livello di qualità alto è molto difficile se non si ha una professionalità di base, un background culturale, un’educazione all’immagine o di formazione fotografica.
E cosa pensi della fotografia cinematografica?
E’ una vecchia e grande passione che porto nel cuore, un desiderio che prima o poi vorrei realizzare. Faccio video, piccoli documentari di cui curo la fotografia avendo una troupe ridottissima. E’ una passione che prende gran parte della vita e non ti lascia più.