Nel mondo ci si dice sconvolti dalla notizia dell’eutanasia applicata in Belgio su richiesta di soggetto diciasettenne di cui non si conosce nè sesso nè male incurabile da cui sarebbe scaturita una sofferenza costante e insopportabile che non potesse essere alleviata. In questo primo drammatico caso ufficiale, di applicazione della “dolce morte” ad un minorenne, si è precisato che risultano essere state osservate tutte le prescrizioni in base alle quali la legge del 2002, cui appunto in Belgio già si ricollegano quasi diecimila casi di ricorso di adulti alla eutanasia, nel 2014 è stata estesa ai minori di qualunque età il cui consenso, non disgiunto da quello dei genitori, sia passato allo stretto vaglio medico –psichiatrico di una Commissione federale di controllo e il tutto avvenga “in silenzio e nella discrezione più totale” che, nel caso in questione, non vi è alcun dubbio sia stata osservata; tanto che nessun altro dato è ancora trapelato circa il minore che, ad un così breve passo dalla maggiore età, non ha sopportato più la sua vita di dolore.
Pure con qualche naturale riserva ad accettare sic et simpliciter quella applicabilità della legge che, a differenza della simile statuizione in Olanda non accessibile ai minori di 12 anni, in Belgio non pone alcun paletto riguardo alla infanzia lasciando, quindi, largo margine alla discrezionalità degli adulti, genitori in primis; il grido allo scandalo che ha preconizzato ”adulti con licenza di uccidere” sembrerebbe provenire più da mancanza di riflessione ed isterismo se non proprio dal solito scontato preconcetto giudicare come mancata sensibilità, degli altri da sè, verso il diritto alla vita dei minori, in quanto tali, incapaci di autodeterminazione; non tenendo in conto che ciò che il popolo belga ha tradotto in legge di Stato rispecchia un sentire civile collettivo o di maggioranza; rispetto al quale, soprattutto da parte italiana, prima di “pontificare” si imporrebbe una onesta critica del proprio “seminato”.
Intanto, sembrerebbe già prodromico di un sentire non esente da ipocrisia, piuttosto che frutto di un errore di valutazione, quel “bambino” (attribuito dalla cronaca di un nostro telegiornale all’individuo diciassettenne belga) di contro alla definizione di “adolescente”, consona a chi da qualche anno già uscito dall’infanzia, secondo qualifica comunemente attribuita ad un contemporaneo coetaneo di qualsiasi nazionalità. Ma, soprattutto, nel dirci “scioccati” dalla notizia d’oltr’Alpe che offenderebbe la nostra sensibilità di cristiano- cattolici garanti (almeno in teoria) della vita a tutti i costi specie nei riguardi dei minori, va opportunamente riconsiderato tutto ciò che, proprio nella Italia cattolicissima (almeno teoricamente) abbiamo al nostro attivo, o passivo, circa la “fine della vita” già procurata a persona anagraficamente adulta ma che, da diciassette anni, era divenuta incapace di autodeterminarsi fisicamente mentalmente e legalmente.
Al riguardo, va ricordato che ormai da tempo è stata archiviata ogni riflessione, nè si è avuto alcun relativo provvedimento cui avrebbe dovuto indurre tutto e il di più che, durante la bagarre seguita all’annuncio della morte di Eluana Englaro il 9 febbraio 2009, aveva scatenato l’esplicito urlo: “Assassini”, irrefrenabile sulle labbra di coloro che, in Senato, avevano visto fallire il tentativo di bloccare l’esecuzione della sentenza ad appena tre giorni dall’avvio, nella struttura udinese La Quiete, del protocollo sospensivo della “nutrizione ed idratazione” non lesinabili neanche ad un animale, ma fatte passare per accanimento terapeutico nei confronti della povera donna; contro il cui ostinato sopravvivere sino all’età di trentotto anni, era stata brandita “de relato” una sua presunta volontà, contraria ad una eventuale precaria sopravvivenza, antecedente l’incidente occorsole il 18 gennaio 1992, all’età di ventuno anni; quando, se ne avesse avuta preservata la capacità, avrebbe avuto tutto il tempo magari per uniformare le sue esternazioni alla implicita volontà di vita che, anche nel corso dei successivi diciassette anni di impossibilità a determinarsi, sarebbe stata chiara espressione dell’ostinazione del suo corpo a resistere sotto una inequivocabile spinta cerebrale tenutasi negletta nel mostrarsi per certi versi sopita ma, certamente, non annullatasi nella morta; dato che Eluana Englarorespirava autonomamente, quindi era “viva”, al pari di ogni essere umano che, dal suo primissimo “alitare”, piaccia o no a qualcuno, è ” vivente” fino a che quel respiro “spontaneamente” non l’abbandoni.
Proprio in base alla notorietà di quello stato di autonomia da alcun macchinario atto ad indurre una respirazione forzosa; la privazione dell’alimentazione (data attraverso il sondino nasogastrico) aveva portato molti a dissociarsi da una sentenza che, pronunciata in nome del nostro popolo “sovrano”, sostanzialmente era percepita come preordinato coinvolgimento in una sostanziale “condanna a morte” quasi in sintonia con certa “civiltà dell’usa e getta”; così, sembrando essersi posta una pietra miliare nell’eliminazione anche del divario, sostanziale ed etico, fra un “quanto” e un “Chi” da poter “gettare via”, se considerato “inutile” oppure “fastidioso”. D’altra parte, solo nell’ottundimento del vortice di quel procedere alla “esecuzione”, “rapido” per quel tanto servito a vanificare il controllo della ragione su troppe coscienze “greggificabili”, ci si poteva illudere di non essere più che avallanti, in concorso, nonchè “preposti boia” virtuali; dato che, mentre il padre di Eluana e la “discrezionale interpretazione” della Magistratura si erano posti al di sopra di quanto “proposto” e “sanzionato” da ognuno per la sua parte, non ha potuto non ricadere su tutti se Eluana Englaro sia morta sostanzialmente “di fame e di sete”; in esecuzione di quanto deciso, appunto “in nome del popolo Italiano”.
Di fronte a quanto da tanti percepito come “assassinio”, era risultato ancora più paradossale quell’essere stati destinatari, insieme con gli autori della bagarre in Senato, di un invito del Capo dello Stato al “silenzio” solidale con il “sofferto decisionismo” nel senso di quella morte; laddove, una Suprema Garanzia la si sarebbe auspicata al di là d’ogni innaturale sentiero che portasse alla negazione di una Vita che, proprio nel suo ostinato resistere, “urlava” una muta richiesta di aiuto, cui si sarebbe imposto il “dovere solidale” di una speranza e lotta da non relegarsi a “monopolio” di un isolato sentire; essendovi globalmente tenuti in quanto esseri umani per i quali, anche se per una morte “legalizzata” non si sia incorso in un formale marchio di “criminali”, sarebbe veramente disperante la rassegnazione ad un “giustizialismo” di Stato non pago di “ingiustiziare” troppe volte; ma, addirittura, arrivato a “sentenziare una morte”, essendosi posto quale “moderna rupe Tarpèa” in senso inverso all’antico costume di servire all’eliminazione dei traditori dell’antica Roma.
Pertanto, prima di scagliarsi contro l’estensione ai minori della legge, già in voga in Belgio dal settembre 2002 circa l’eutanasia di adulti capaci di autodeterminazione; bisognerebbe soffermarsi a riflettere che, anche in una vicenda di estrema fragilità come quella di persona adulta nelle condizioni di incapacità di Eluana Englaro, valeva quanto ritenuto dal giurista Alberto Gambino (presidente di Scienza e Vita, associazione che collabora con la Cei in tema di Bioetica) : “il diritto all’eutanasia di un bambino altro non significa che attribuire ad un adulto un potere di vita e di morte su un minorenne…è solo la “maschera” di una decisione personale libera e consapevole che non è in alcun modo concepibile in capo ad un soggetto che per il diritto e il grado di maturità è incapace di autodeterminarsi nel compimento di scelte a contenuto legale ed esistenziale così estreme”. Essendo la condizione di estrema fragilità di Eluana Englaro assimilabile e persino peggiore di quella di un “bambino” non avendo avuto la possibilità di “maturare”, a livello conscio, alcuna percezione della vita secondo il prepotente continuare a pulsarle nelle vene, quale espressione di una indomabile volontà inconscia.
Senza contare che alla morte di Eluana Englaro, decisa nonostante l’eutanasia fosse vietata dal nostro codice penale e dal codice deontologico medico, bene si attaglia la definizione, circa la legge sulla “dolce morte” estesa dal Belgio ai minori, come “contraria alla carta dei diritti umani …un abissale salto sotto il livello di civiltà, di umanità…” secondo quanto espresso dal Vaticano per bocca del cardinale Ezio Sgreccia presidente della Fondazione Ut Vitam habeant e presidente emerito della Pontificia Accademia per la Vita. Resterebbe da chiedersi quale condanna, magari nel verso di una scomunica, si sia mai “abbattuta” dal Vaticano su coloro che avevano proposto deciso e messa in atto l’eutanasia di Eluana Englaro.