Ho volutamente convertito nell’ affermazione di questo editoriale la domanda che Papa Francesco ha rivolto all’umanità nell’Angelus di ieri facendo, nelle mie modeste possibilità, la mia parte.
La speranza da sola non vive. Perché non muoia ha bisogno di impegno, amore verso, presenza là dove c’è bisogno. Luce per me è la parola in cui amo riassumere il tutto ciò che può carburare la speranza stessa perché non sia affievolisca o, peggio, si spenga. Un “aiutino” lo si può ricevere orientando il proprio sentire verso l’altro, il “cosiddetto” prossimo, per farsene carico senza la pretesa di amare sé stessi nell’altro ma seppellendo per sempre il proprio “ego” giacobino che, reclama sempre fariseicamente, un proprio spazio di visibilità.
Faccio la mia parte ho dichiarato in abbrivio e uso questo terreno mediatico per fare luce su quella parte di “cultura” che dovrebbe essere inclusiva e accessibile anche a tutti quelli che, grandi e piccini, invece ne sono tagliati fuori.
In questa nostra epoca esiste, e troppo spesso lo si ignora, una trascurata terra di mezzo, popolata da persone silenziosamente impegnate per il Bene comune e dignitosamente riluttanti ad esternare il loro lavoro per accattare consensi. Una briciola della propria speranza sarebbe bello riporla nella possibilità che la cultura dell’umano sia valorizzata “facendo cultura”, promuovendola, valorizzando e stimolando una riflessione collettiva su tutti quei temi che sono parte integrante del vivere civile abbattendo le barriere di accessibilità comunicativa dei contesti perché nessuno sia condannato a vivere ai margini della società.
Una speranza condivisa potrebbe essere il guardare ad ogni persona come 𝐮𝐧𝐚 𝐩𝐞𝐫𝐬𝐨𝐧𝐚 nella sua unicità: e, quindi, non solo ai bisogni o alle fragilità che può avere, ma anche ai suoi sogni, progetti, intenti, desideri. Al contributo che può dare in quanto componente attivo della società.
Ho voluto per la copertina di queste mie riflessioni minime un disegno di Anja Rozen, studentessa slovena 13enne, vincitrice del concorso internazionale “Plakat Miru”. Anja è stata selezionata tra 600.000 bambini partecipanti, in tutto il mondo. La giovane ha affermato durante un’intervista: “Il mio disegno rappresenta la terra che ci lega e ci unisce. Gli umani sono tessuti insieme. Basta uno solo ad arrendersi, e gli altri cadono. Siamo tutti connessi l’uno all’altro, e al nostro pianeta, ma purtroppo ne siamo poco consapevoli”.
Il disegno di Anja Rozen esprime, a mio avviso, magnificamente l’affascinante contenuto antropologico racchiuso nella bella espressione propria della cultura zulu che sfida il tempo: Umuntu, nigumuntu, nagamuntu. La traduzione in italiano è: «Una persona è una persona a causa di altri». Poche incisive parole per affermare lacentralità della relazione umana dal punto di vista della circolarità relazionale e dell’interdipendenza, i pilastri sui quali dovrebbe fondarsi il vivere civile. La centralità della persona umana deve essere il senso del futuro nel pianeta, la ragione duttile che sappia essere fedele ai valori della convivenza tra esseri umani impegnandosi per abbattere i pilastri su cui si radica quella presunta civiltà che avvilisce la realtà mancandole di rispetto perché non ha interesse per l’umanità.