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INDIA, MISSIONE IMPOSSIBILE: RIPULIRE IL GANGE

Per gli indù è una dea vivente, è chiamata Ganga Maa (madre Ganga) ed è il simbolo della millenaria civiltà indiana. Da secoli, le sue acque considerate pure e purificatrici accolgono le ceneri e i cadaveri di milioni di fedeli, convinti che se i loro corpi sono donati al fiume, le loro anime potranno raggiungere moksha (o salvezza) sfuggendo al costante ciclo karmico di morte e rinascita. Lungo tutto il suo corso, gli indù si bagnano per liberarsi dai peccati, compiono rituali per rendere omaggio ai propri antenati e alle proprie divinità, offrono fiori e piattini d’argilla su cui accendono i diyas, rendendo il Gange un letto di candele galleggianti.

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Al momento della morte, per un indù, non esiste un luogo più sacro di Varanasi. Sui ghat dell’antica Benares, le pire funerarie bruciano carne umana senza sosta, giorno e notte; poi le ceneri e le ossa abbrustolite sono consegnate al fiume. Non tutti i corpi, però, vengono cremati: i santoni, le donne incinte, i lebbrosi, le vittime di un morso di serpente e i bambini sotto i cinque anni vengono buttati direttamente a decomporsi nell’acqua. Secondo le credenze induiste, infatti, queste persone hanno già espiato i propri peccati in questa vita e le loro anime non hanno bisogno del fuoco per purificarsi. Inoltre, alcune famiglie sono troppo povere per comprare sufficiente legna da ardere e gettano nel fiume corpi bruciati solo per metà.

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Si calcola che ogni anno, a Varanasi, vengono cremati 32 mila corpi producendo 300 tonnellate di cenere e 200 tonnellate di carne umana semicarbonizzata che finiscono nel corso d’acqua. Questa metropoli, che conta oltre un milione di abitanti e riceve tutto l’anno ondate di pellegrini da tutta l’India, rilascia ogni giorno circa 200 milioni di litri di liquami umani nel fiume sacro, causando una concentrazione di coliformi fecali (batteri) 120 volte superiore alla soglia limite.

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Il Gange, tuttavia, non è solo oggetto di venerazione religiosa. Il bacino gangetico, infatti, è una delle più fertili e densamente popolate aree del mondo e copre una superficie di oltre un milione di chilometri quadrati. Lungo le sue sponde vivono 400 milioni di persone (oltre un terzo dell’intera popolazione indiana) che utilizzano le sue acque e quelle dei suoi otto affluenti per uso domestico, agricolo e rituale. Nella sua corsa di 2.500 chilometri, dalle vette occidentali dell’Himalaya verso il Golfo del Bengala in Bangladesh, sono sorti nel tempo grossi agglomerati urbani e industriali, come Delhi, Allahabad, Varanasi, Patna, Calcutta e Kanpur. Così, innumerevoli concerie, fabbriche tessili, distillerie, mattatoi e ospedali hanno cominciato a scaricare senza remore rifiuti tossici non degradabili nel Gange, rendendolo oggi uno dei fiumi più inquinati al mondo.

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Ogni giorno, infatti, 3 miliardi di litri di liquami urbani finiscono nelle sue acque e solo il 45 per cento viene trattato da impianti di depurazione sovraccarichi e malfunzionanti. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), il livello di tossine e batteri pericolosi è tremila volte superiore ai livelli di sicurezza, causando gravi patologie enteriche trasmesse via acqua, come malattie gastrointestinali, colera, epatite, tifo e diarrea, che in India uccide migliaia di bambini ogni anno. Anche se gli scarichi industriali sono responsabili solo del 20 per cento dell’inquinamento, hanno un enorme impatto sulla popolazione. Recenti studi da parte dell’ICMR (Indian Council of Medical Research) affermano che il Gange è così pieno di agenti chimici e metalli pesanti che la gente che vive lungo le sue rive in Uttar Pradesh, Bihar e Bengala è più incline a contrarre il cancro rispetto a qualsiasi altro posto in India.

L’impresa impossibile di Modi

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Qualche mese fa, subito dopo il trionfo elettorale, il governo Modi ha promesso di stanziare 270 milioni di euro del suo primo bilancio per tentare dove i governi precedenti hanno miseramente fallito: ripulire il Gange. Dopo una prima iniziativa non andata a buon fine nei primi anni Ottanta sotto il primo ministro Indira Gandhi, il progetto più ambizioso è stato il Ganga Action Plan (GAP), lanciato dal figlio di Indira, Rajiv Gandhi. Dal 1986 al 2000, sono stati spesi circa 180 milioni di euro che hanno reso il GAP il più costoso tentativo di ripulire un singolo fiume in tutto il mondo. Il suo clamoroso fallimento è stato principalmente attribuito alla corruzione, alla carenza di competenze tecniche e alla mancanza di supporto da parte delle autorità religiose.

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Nonostante il prevedibile criticismo, il neo primo ministro Narendra Modi ha cercato di dimostrare che il risanamento del fiume sacro è una priorità del suo mandato, creando il Ministry for Water Resources, il River Development e il Ganges Rejuvenation. Inoltre, a luglio, è stato annunciato il progetto Namami Ganga (in sanscrito “riverenza al Gange”) per ripulire le sue acque in tre anni. Nonostante gli ingenti fondi a disposizione, questa sembra un’impresa davvero impossibile. La Corte Suprema indiana ha recentemente espresso tutto il suo scetticismo affermando che il piano d’azione del governo non sarebbe in grado di risanarlo “nemmeno in 200 anni”. Sul tavolo, al momento, ci sono piani per costruire 16 nuove dighe lungo una linea di 1.600 chilometri da Varanasi a Hooghly, rendendo il fiume una via fluviale per le attività commerciali. Tuttavia, uno dei problemi principali sta proprio a monte, dove in passato la costruzione di dighe, tunnel e centrali idroelettriche ha deviato il corso del Gange e dei suoi affluenti diminuendone la portata e aumentando così l’impatto degli scarichi urbani e industriali sulla falda acquifera. Secondo gli esperti, quindi, questo genere di attività rischierebbe solamente di uccidere un corso d’acqua che sta già da tempo lottando per la propria sopravvivenza.

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Una cosa è certa, il risanamento del Gange non si può isolare dalla piaga che sta sempre più affliggendo il subcontinente indiano: l’immondizia. Si tratta di un problema non solo politico, ma anche culturale in un Paese che tollera altissimi livelli di sporcizia e sciatteria nei propri spazi pubblici. Solo nel 2000, l’India ha promosso una politica di rifiuti solidi urbani chiedendo a tutte le città di elaborare piani di gestione della spazzatura che comprendessero la raccolta differenziata, il riciclaggio e il compostaggio. Tuttavia, questa direttiva non è mai stata applicata e, mentre quasi l’80 per cento delle acque di scarico finisce nei laghi e nei fiumi, la popolazione indiana rischia di annegare nei propri escrementi.

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Data:

29 Novembre 2014